«E così abbiamo deciso. Prima o poi lo faremo, più prima che poi. Il problema è come. Queste pillole, questi medicinali che devo prendere non sono letali neanche se somministrati in dosi massicce. Purtroppo, sono benzodiazepine, non barbiturici. Provocano l'oblio, una tregua che però è solo temporanea.»
«Sstt.» Rachel s'inginocchiò di nuovo accanto a lei.
«Il guaio è che mi preoccupo di come sarà la vita per Andrew. Dopo. Che cosa proverà? Desidero farlo, non voglio andare avanti così, ma non voglio che lui soffra. Ho paura che si senta in colpa. Ecco perché volevo chiedertelo...» S'interruppe, il respiro affannoso.
«Volevi chiedermi cosa?» Rachel abbassò lo sguardo sul viso di Clare.
«Oh, niente, niente.»
«No, continua, dimmelo.»
Clare chiuse gli occhi, poi li riaprì fissando direttamente quelli di Rachel.
«Voglio sapere che cos'hai provato, dopo aver ucciso tuo marito. Ti sei sentita in colpa? Cos'hai provato durante tutti quegli anni in prigione? Riuscivi a costringerti a ricordare tuo marito, la tua vita di un tempo?»
Rachel si alzò e si allontanò dal letto.
«Non l'ho ucciso», rispose. Il suo tono era misurato, controllato. «Quante volte devo ripeterlo? Non ho ucciso mio marito. Sì, ammetto di avergli sparato, ma non l'ho ucciso. È stato un incidente. È stato mio cognato a ucciderlo. Non mi hanno creduto. In un certo senso, non posso biasimarli. Avrei dovuto dire la verità sin dall'inizio. Ma non l'ho fatto. Ho mentito. E le mie bugie sono state smascherate.»
Si sedette su un lato del letto. «E, sì», continuò, «mi sono sentita in colpa. Terribilmente in colpa. Mi sento ancora in colpa. Ma ho provato anche altre emozioni.» Passò a Clare il bicchiere di succo e le pasticche. Aspettò che lei le inghiottisse, poi si risedette e rimase ad ascoltare il ritmo del suo respiro. Finché non diventò lento e regolare. «Se è umano, si sentirà in colpa.» Le sue parole furono dolci, il tono gentile. «Ma poi supererà la cosa, come ho fatto io.»
Si alzò e spense il televisore. Si voltò in direzione del letto e fissò il viso di Clare, osservando il tremolio delle sue palpebre chiuse. Poi le scostò i capelli sottili dalla fronte e uscì in giardino.
L'aria era ancora tiepida. Aveva fatto davvero caldo, quel giorno. Il tipo di calura capace di far sbocciare un intero giardino, rifletté. E ripensò a come aveva passato quel pomeriggio.
«È come se tu riuscissi a vedere tutte le piante che crescono, l'energia che fluisce attraverso di loro», raccontò a Ursula Beckett mentre attraversavano insieme il vivaio. Si fermarono accanto a un'aiuola di iris. I fiori erano ben chiusi, come minuscoli ombrelli ordinati, ma mentre loro due indugiavano lì, Rachel si accorse che uno dei petali, bianco con sfumature celesti, aveva cominciato a staccarsi dagli altri.
In quell'occasione erano sole.
«Ti andrebbe di accompagnarmi?» le aveva chiesto Ursula il giorno che avevano trascorso insieme sulla spiaggia. «Se t'interessa, cioè. Sto creando un giardino, poco più in là di Bray. Ho bisogno di organizzare le mie scorte. C'è uno splendido vivaio da cui mi servo. Appartiene da anni alla stessa famiglia. Sono sicura che ti piacerebbe.»
Avevano lasciato la strada a doppia corsia e imboccato una curva che le aveva portate su, per una tortuosa stradina bordata di alberi, fino a un'antica casa colonica in pietra. Ursula le aveva raccontato come fossero state gentili con lei quelle persone quando aveva avviato la sua attività. L'avevano aiutata e incoraggiata, avevano condiviso con lei la loro competenza e le avevano presentato l'uomo che sarebbe diventato suo marito.
«Il mio adorabile Daniel», sospirò. «Dovresti proprio conoscerlo. È un tale tesoro! So che ti piacerebbe. Sembra un po' burbero quando lo incontri la prima volta, ma questo dipende dal suo lavoro. Gestisce un'agenzia di sicurezza. È sottoposto a parecchie pressioni, c'è sempre molto denaro in ballo. Ma quando arrivi a conoscerlo meglio, scopri che sotto quell'atteggiamento da macho è un vero pezzo di pane.»
Era bellissima, la donna che Daniel aveva sposato: aveva fatto un'ottima scelta. Rachel la osservò, mentre Ursula la precedeva, avanzando tra le piantine allineate. Era elegante, sicura di sé e del proprio posto nel mondo. Rachel si paragonò a lei e si sentì goffa e sgraziata.
«Forza, racconta, raccontami come vi siete conosciuti.» La incitò, quando si fermarono per sedersi su una panca di quercia, accanto a un pergolato coperto di rose rampicanti.
Ursula raccontò. Qualche anno prima si era verificata una terribile serie di furti, lassù. Il posto era abbastanza lontano dalla città perché le strade restassero bloccate dalla neve durante l'inverno, ma abbastanza vicino perché il bagliore delle luci appena sopra l'orizzonte filtrasse nel cielo notturno. Alcuni uomini erano arrivati con un furgone, nelle prime ore del mattino. Erano armati di fucili e spranghe e avevano il volto coperto da un passamontagna. Sapevano cosa volevano. Denaro, gioielli, argenteria, quadri, mobili. Era successo più d'una volta. Dopo il terzo furto, durante il quale la famiglia derubata era stata legata, chiusa in cantina e minacciata, gli abitanti della zona avevano dimostrato un po' di buonsenso, rivolgendosi a un'agenzia di sicurezza.
«Il caso volle che io mi trovassi qui il giorno in cui Daniel venne a conoscerli. Cominciammo a parlare e poi... Sai come succede. Una cosa tira l'altra. Lui mi chiese il numero di telefono, poi mi chiamò e uscimmo insieme. E, chissà come, finimmo per sposarci. Fu una decisione del tutto inaspettata. Io avevo in programma di tornare negli Stati Uniti, dove vive la mia famiglia.»
«Cosa ti ha portato in Irlanda?» Rachel continuò a tenere la testa girata, in modo che Ursula non potesse vederla in viso.
«Oh, un motivo non proprio originale! Andavo matta per la musica e la cultura irlandesi e sono venuta qui per rintracciare i miei antenati. Avevo dei parenti che abitavano qui, in una grande fattoria più giù, lungo la strada. Ormai, è stata venduta e sostituita da case. All'epoca, mia zia era un fantastico giardiniere. È stata lei a farmi iniziare, a suscitare il mio interesse. Non avevo mai pensato di stabilirmi definitivamente qui. Ero sempre sul punto di tornare a casa. Avevo persino un fidanzato che mi aspettava. E invece... Così è la vita. Eccomi qua. Sposata, con tre figli.»
«Quando è successo?»
«Oh, vediamo... Laura ha quattro anni, Jonathan sette. Quindi, se non sbaglio, dev'essere stato circa otto anni fa. Sì, esatto. Fra due settimane è il nostro anniversario. A proposito, daremo una festa. Devi assolutamente venire.»
Otto anni prima, quando lei si trovava in prigione già da quattro anni. I quattro anni più brutti della sua vita. Ci ripensò, mentre sedeva sulla panca di legno, accarezzandone le lisce venature con la punta delle dita, sentendo il sole sul viso, ascoltando il suono prodotto da un colombaccio tra i rami di un frassino vicino. Più in lontananza, una mucca muggì, un'unica lunga nota protratta. Un suono d'avvertimento. Le risuonarono nelle orecchie i rumori del carcere. Le grida, le minacce, le urla, il fragore del metallo sul metallo. E la desolata solitudine che aveva avvolto la sua esistenza là.
«Di certo sentirai la mancanza della tua famiglia. In che zona dell'America vive?»
«A Boston. I miei familiari vengono spesso a trovarmi. E io torno da loro ogni anno. Porto con me i bambini. Daniel non viene mai. Non gli piace volare. Dice che, se potesse attraversare l'Atlantico in barca a vela, non avrebbe problemi. Gli piacciono le barche. Dio solo sa come mai.»
«A te non piacciono?»
Ursula fece una smorfia. «Non le sopporto. Mi viene subito il mal di mare. Daniel ha uno yacht. Sono convinta che ne sia innamorato. 'Lei', come si ostina a chiamarlo, è ormeggiato, non so se questo è il termine esatto, nel porto di Dún Laoghaire. È l'unico punto su cui non andiamo d'accordo. Nei week-end lui vuole andare in barca a vela, mentre io preferisco restare nel mio giardino.»
«E che mi dici della famiglia di Daniel? Oh, scusami» - Rachel fece una pausa -, «adesso sono io a sembrare un'impicciona.»
«No, nient'affatto, è tutto a posto.» Ursula le diede qualche colpetto sul ginocchio, il suo tocco era amichevole. Confidenziale. «Nel passato di Daniel c'è una tragedia. Aveva un fratello, un fratello più giovane. Venne assassinato parecchi anni fa. Lo uccise sua moglie. Fu terribile. E, quel che è peggio, ammesso che esista qualcosa di peggio dell'omicidio, lei cercò di implicare Daniel nell'intera faccenda. Disse che loro due avevano avuto una relazione, che suo marito l'aveva scoperto, e che era scoppiata una violenta lite durante la quale Daniel gli aveva sparato. Naturalmente, erano solo assurdità e nessuno le credette. Ma fu davvero terribile per la famiglia, all'epoca. La madre di Daniel non si riprese mai. Morì poco tempo dopo, uccisa dall'alcol. E anche suo padre soffre nello stesso modo.»
«Lo uccise sua moglie.» Che strano sentirlo dire in quel modo, tanto bruscamente, in tono così spiccio. «Lo uccise sua moglie.» Rachel avrebbe voluto pronunciare quelle parole ad alta voce, saggiandole.
«Sei molto silenziosa. Ti ho forse scioccata?» Ursula la guardò in faccia.
«No.» Sorrise. «Certo che no. Mi stavo solo chiedendo cosa ne sia stato della moglie. È finita in prigione?»
«Certamente. È stata condannata all'ergastolo. Daniel dice che non la lasceranno più uscire. È malvagia. Sai, io sono americana, e noi abbiamo un approccio diverso, in fatto di giustizia. Credo che una persona del genere, che commette un omicidio e poi cerca di incolpare qualcun altro, meriti la pena di morte.» S'interruppe e la guardò di nuovo. «Adesso sì che sei scioccata, vero? Il mio non è un punto di vista molto popolare in questo Paese, lo so. I miei amici mi intimano sempre di tacere quando comincio a parlare dell'argomento, ma temo che sia proprio questa la mia opinione.»
Rachel non rispose. Aveva pensato spesso alla morte. Aveva desiderato di morire più d'una volta. Capovolse il polso, tanto che la cicatrice bianca brillò nella luce del sole. L'accarezzò delicatamente. La pelle sembrava diversa, persino dopo tutto quel tempo. Un giorno, aveva cercato di tagliarsi la vena radiale, usando un acuminato pezzo di plastica staccato da una biro rotta. Il sangue le era sgorgato sui vestiti, sulla biancheria da letto. Era stata assalita dalla nausea e dallo stordimento. Aveva tenuto il braccio scostato dal corpo e osservato il sangue che gocciolava sul pavimento, finché le secondine non l'avevano trovata. E la cosa era finita lì.
«Vieni.» Ursula si alzò. «Ho del lavoro da fare. E tu mi aiuterai. T'intendi di piante, vero? È evidente. Ho la sensazione che tu sia un ottimo giardiniere, che il tuo giardino sia qualcosa di speciale, ho ragione?»
Che cosa poteva dire? Come poteva rispondere? Che era stato qualcosa di speciale. Che era stato splendido e prezioso. Le sorrise e si alzò.
«Un tempo, un tempo avevo davvero un bel giardino», rispose. «Poi abbiamo traslocato e da quel giorno non sono più riuscita ad averne uno. Ma adesso, forse, ci riuscirò.»
Si fermò sulla soglia e ascoltò il suono del respiro di Clare Bowen, poi sentì squillare il telefono in corridoio. Era Andrew. Ubriaco.
«Adesso puoi andartene. Sarò a casa fra dieci minuti.»
«Aspetterò il suo ritorno, non è un problema.»
«No.» La voce dell'uomo era reboante e insistente. «No, non voglio che tu rimanga lì. Voglio che te ne vada. Mi hai capito? Sono stato chiaro?»
Rachel rimase ancora un po' in ascolto per captare il flebile suono del respiro di Clare. Poi lasciò la stanza e la casa. La tranquilla via in cui abitavano i Bowen non distava molto dalla strada costiera. S'incamminò rapida, poi cominciò a correre. Il suo passo era fluido e aggraziato. Andava a correre con regolarità sul molo occidentale, ogni giorno. Il respiro le entrava e usciva dalle narici in modo uniforme. Accelerò, le spesse suole delle scarpe da ginnastica che attutivano il contraccolpo a caviglie e ginocchia quando i piedi picchiavano sul duro cemento del marciapiede. Intorno a lei, tutto era buio e silenzioso. Il traffico era quasi inesistente. Continuò a correre, percependo l'odore del mare, ancor prima di vederlo. La marea si era ritratta. Sentì il sale sulle labbra e immaginò il denso fango nero situato subito sotto la superficie sabbiosa, il modo in cui le sarebbe fluito tra le dita dei piedi. Intravide la sagoma degli alberi accanto alla stazione del DART. Scese di corsa lungo la collina, fino al parcheggio, e si aprì un varco tra i cespugli. Lì, il silenzio era pressoché totale. Davanti a sé vide qualcosa di bianco, svolazzante: i laceri resti del nastro da scena del delitto. Si chinò per infilarvisi sotto. Vide la sagoma scura, là dove i poliziotti avevano sfoltito la boscaglia, nel punto in cui era stato trovato il cadavere di Judith. Si sedette a terra, poi si sdraiò supina, fissando il cielo. Non c'era la luna, ma le stelle erano brillanti e nitide. Rotolò sulla pancia e strofinò il viso contro il terriccio.
Pensò alla proposta di Ursula Beckett: restare da lei per un paio di giorni, mentre suo marito era fuori città.
«Andrà in barca a vela con alcuni amici dello yacht club. Non mi piace rimanere da sola coi bambini. La ragazza alla pari è completamente inutile. È una bambina anche lei. Le lascerò il week-end libero. Vieni a stare da me, sarà divertente. Ne sarei felice.»
«Cosa devo fare, Judlth? Devo accettare? Ne varrà la pena? Mi sarà utile?» sussurrò Rachel.
Si girò sul fianco destro e premette l'orecchio sul terreno. Rimase in ascolto. Poi si mise supina e riguardò le stelle. Sorrise e parlò di nuovo. «Addio, Judith, e grazie. Per il tuo amore e la tua gentilezza. Per la tua generosità. Per avermi aiutato a scegliere come avrei vissuto in futuro. Riposa, adesso, riposa in pace.»
Le lacrime le sgorgarono dagli occhi. Accostò le ginocchia al petto e le cinse con le braccia. Emise violenti singhiozzi, dondolandosi da una parte all'altra, ascoltando il mormorio delle onde mentre la marea avanzava, lenta, sopra le porche di sabbia. Aveva programmato ciò che avrebbe fatto una volta lasciata la prigione. Aveva calcolato tutto. Ogni passo, ogni mossa. E stava funzionando. Era sulla buona strada. Ben presto avrebbe ottenuto quello che voleva. Ben presto il momento fatidico sarebbe arrivato. Si dondolò ancora un po'. Chiuse gli occhi. E, nell'oscurità, vide il suo futuro perfettamente chiaro.
19
Distava solo un'ora e mezzo di treno da Londra, ma era un paesaggio diverso da qualunque altro Jack avesse mai visto. Enormi campi quadrati, almeno quattro ettari, coperti da una fitta griglia di fil di ferro, che era sorretta su ogni angolo da alti pali di legno, e sopra la quale erano drappeggiate file su file verde scuro di lunghe piante simili a viti. Piccoli cottage in mattoni, col tetto di tegole dello stesso colore del sangue secco, erano ordinatamente allineati accanto alla linea ferroviaria, i rispettivi giardini gremiti di fiori estivi. E, di tanto in tanto, quella distesa di verde era interrotta da quelli che lui identificò come essiccatoi per il luppolo, i loro cannelli conici che puntavano verso il cielo. Quindi, quelli erano campi di luppolo, con le loro strane e innaturali strutture simili a giganteschi vigneti. Oppure giardini di luppolo, non era così che venivano chiamati? Se ne rammentò vagamente, ripensando a storie di cockney felici che raccoglievano il luppolo durante le vacanze estive. Si appoggiò allo schienale del sedile e afferrò il bicchiere di carta pieno di caffè tiepido, guardando fuori del finestrino i campi che si susseguivano rapidi.
Quella mattina, si era messo in moto molto presto. Il volo delle sei da Dublino a Heathrow, il treno fino a Paddington, la metropolitana fino al London Bridge, e poi un altro treno attraverso tutte quelle cittadine di pendolari con bizzarri nomi tipicamente inglesi: Chislehurst, Petts Wood, Orpington e, finalmente, Tunbridge Wells, nel Kent. Non era convinto che il gioco valesse la candela, ma aveva trovato davvero intrigante la telefonata ricevuta il mattino precedente. Da parte di Elizabeth Hill.
«L'ho chiamata», aveva spiegato la donna, «perché ho appena letto sull'Irish Times di oggi la notizia dell'arresto e dell'interrogatorio di un uomo che, in base alla descrizione riportata dal quotidiano, ho riconosciuto come il mio ex marito. Trovo assolutamente sbalorditivo che pensiate che lui possa aver avuto qualcosa a che fare con la morte di mia figlia. È inconcepibile che le abbia fatto del male. Non riesco a capire cosa pensiate di fare.»
Jack le aveva spiegato che disponevano d'indizi sufficienti per arrestarlo. E prevedevano di poter costruire un castello di prove abbastanza solido per incriminarlo. Era il principale indiziato, le aveva detto.
C'era stato un attimo di silenzio.
«Si sbaglia, signor Donnelly. Non so che cosa pensi di fare, che tipo di logica stia seguendo. Non m'interessa nemmeno sapere quali prove creda di avere contro di lui. Sta commettendo un errore, un grosso errore.»
Un improvviso senso di ansia gli aveva contratto lo stomaco, inaridito la bocca. Lei aveva torto, naturalmente aveva torto, ma perché mai avrebbe dovuto accorrere in aiuto dell'uomo che la odiava tanto palesemente? Quella era la domanda su cui Jack rifletté, mentre un taxi lo accompagnava dalla stazione di Tunbridge Wells lungo strette viuzze, i campi di luppolo che svettavano sopra di loro, fino alla foresta in cui viveva Elizabeth Hill. Jack pensò che sembrava uscita da uno dei libri di fiabe delle sue figlie. Tutto buio e mistero, il sole nascosto dai fitti alberi sui lati della strada. Immaginò come doveva essere quel posto di notte. Nero come la pece e silenzioso, eccettuato il saltuario grido di qualche civetta. Sorrise al pensiero. Le bambine avrebbero adorato l'idea.
Il taxi rallentò e si fermò davanti a un cancello con cinque sbarre.
«Tanto vale che io la lasci qui. La casa non dista molto, è subito dietro la curva.» Il tassista fece un cenno con la testa per indicare la direzione.
Jack si frugò in tasca ed estrasse una manciata di monete da una sterlina. Le contò e le lasciò cadere nel palmo dell'uomo.
«Lei è un suo amico appena arrivato dall'Irlanda?» Il tassista torse il collo massiccio per guardarlo meglio.
«Sì, esatto. La conosce?»
L'uomo si strinse nelle spalle, poi prese il blocchetto delle ricevute e cominciò a compilarne una. «Non di persona, ma tutti la conoscono, da queste parti. È l'artista ufficiale della riserva naturale. Disegna roba di ogni genere. Calendari, biglietti, poster. Uccelli e animali, tutti molto carini. Ma non è il mio genere. Preferisco l'altro tipo di pollastrelle, se capisce cosa voglio dire.»
Dannati tassisti, pensò Jack.
«E vive qui da sola? Dev'essere un luogo piuttosto solitario.»
«Sì, sola. Ma mi pare ovvio che lei non la conosca molto bene. Ha sempre un inquilino o simili, in casa.» E ridacchiò, la pelle cascante delle mascelle che tremolava. «È un po' una di quelle, in realtà. Ma saprà benissimo anche lei che tipi sono gli artisti.»
Jack aspettò che la macchina si allontanasse, poi s'incamminò sul vialetto. I suoi piedi non producevano nessun suono, mentre li strascicava tra gli aghi di pino caduti. Il profumo dell'aria era reso fresco e pungente dall'aroma della resina.
Tutt'a un tratto, si sentì molto, molto lontano da casa. Pensò al tragitto dalla stazione a lì. A com'erano apparse linde e ordinate le siepi. Nessun sacchetto di plastica lacero che penzolasse dai rami dei noccioli e delle rose selvatiche. Tutti i segnali stradali erano dipinti di fresco, perfettamente leggibili. E non si vedevano rifiuti, niente auto abbandonate o sacchi di plastica nera da cui colava l'immondizia altrui. I villaggi che avevano attraversato erano dotati di parchi pubblici, e aveva notato addirittura un laghetto con delle anatre e un campo da cricket con un piccolo, bizzarro padiglione di legno. Era tutto molto inglese, tutto in stile tè-pomeridiano-e-sandwich-al-cetriolo. Nettamente diverso da Dublino.
Anche il cottage di Elizabeth Hill era diverso. Era fatto di vecchi mattoni, una vasta gamma di colori diversi, rosso smorzato, rosa, giallo cremoso, e parzialmente rivestito di legno. Il tetto era spiovente, con alti comignoli decorati. Le finestre erano piccole, i vetri romboidali che brillavano nella luce del sole; la sezione superiore della porta d'ingresso era aperta e fissata a un gancio sulla parete. Si fermò e guardò dentro. La porta dava su quello che identificò come il salotto. Era buio, immerso nell'ombra, eccettuato il brillante faretto fissato al soffitto che illuminava un tavolo da disegno, un foglio di carta e la testa bionda di una donna china sul proprio lavoro. Jack rimase fuori a osservarla. Lei non alzò gli occhi. Lui aspettò, la mano posata sul gancio.
«Entri», lo invitò la donna. «È in ritardo. L'aspettavo un'ora fa.»
Lui si fermò al centro della stanza e si guardò intorno, fissando gli affreschi che coprivano ogni centimetro quadrato di parete. Degli alberi spuntavano dai battiscopa allungando i rami verso l'alto, le loro chiome che si spingevano fin sul soffitto. Alcuni uccelli volavano di ramo in ramo e, tra l'ammasso di foglie, facevano capolino piccoli visi. Bambini con grandi occhi e capelli biondi, le mani protese. Persino le assi di legno del pavimento erano decorate, dipinte con dettagliate pennellate, un denso manto erboso verde, tanto che lui riuscì quasi a sentirne la morbidezza sotto i piedi mentre le si avvicinava.
La donna era seduta su un alto sgabello accanto al tavolo da disegno. Indossava sformati pantaloni di cotone bianco e una maglietta gialla piuttosto larga. Le maniche erano arrotolate, mettendo in mostra braccia lunghe e affusolate, coperte di minuscole lentiggini. Quando si muoveva, alcuni braccialetti d'argento scivolavano su e giù tra i polsi e i gomiti, un costante tintinnio, simile a una colonna sonora, che accompagnava ogni suo gesto. I piedi, dall'ossatura minuta, erano nudi. Anch'essi erano lentigginosi e abbronzati, con l'arco alto e lunghe dita diritte. Lui ricordò di aver già visto quei piedi. Sembrava una bambina, quella donna dallo scarmigliato caschetto biondo e dal corpo snello e sodo, ma nel bagliore del faretto Jack riuscì a notare la ragnatela di rughe intorno agli occhi, alla bocca e sulla fronte.
Lei gli offrì un caffè e focaccine fatte in casa, accompagnate da ricco miele scuro.
«Buono», commentò lui, appoggiando la schiena ai cuscini del basso divano.
«È un prodotto locale. I miei vicini, che abitano nella fattoria accanto, allevano api», spiegò lei.
Regnò il silenzio mentre lui masticava. Si leccò le dita e poi chiese: «Vive qui da molto?»
«Ho lasciato Dublino circa quattordici anni fa. Sono stata fortunata. Ho trovato questo lavoro molto in fretta. Mi piace questo posto. È quasi la mia casa.»
«Quasi?»
«Quasi. Tanto quanto può esserlo qualunque luogo che non sia quello in cui si è nati.»
«Quindi, è questo che pensa? Che non sia possibile sostituire una casa con un'altra?»
«È il dilemma degli emigranti, no? Il desiderio di qualcosa che cambia costantemente. Non riuscire mai ad accontentarsi di ciò che si ha.»
«Quindi torna spesso a Dublino?»
«Non sia ipocrita, signor Donnelly. Sa bene che non lo faccio. Probabilmente, sa anche che ci sono tornata per la prima volta quando ho assistito al funerale di Judith.»
«Non è tornata quando sua figlia si è ficcata nei guai? Quando è finita in prigione, cioè.»
«Lo sa benissimo. Sa benissimo che non l'ho fatto. In realtà, all'inizio ero all'oscuro di tutto. Judith scelse di non informarmi. E mio marito non mi tiene aggiornata sugli avvenimenti che coinvolgono i miei figli. Non dopo quella brutta faccenda di tanti anni fa. Non mi ha mai perdonato, temo, per averlo tradito. Avere una relazione era già abbastanza grave, ma avere una relazione con una donna era assolutamente inaccettabile.»
«Aspetti un attimo.» Lui raddrizzò la schiena e la guardò. «Avere una relazione con chi?»
Elizabeth rise fragorosamente della sua espressione sbalordita.
«È scioccato», notò. «Lei che deve aver visto di tutto! Non gliel'ha detto nessuno? Pensavo che tutti morissero dalla voglia di svelare l'autentica portata della mia ignominia.»
E poi toccò a Jack ridere, ripensandoci. Ripensò a come tutti avessero accennato alla relazione con uno degli amici di famiglia, e lui e gli altri avevano supposto automaticamente che si trattasse di un uomo.
«Vede, non sono soltanto un'adultera, ma anche una lesbica. Doppiamente scioccante. E mio marito fu costretto a sopportare la consapevolezza di essere stato tradito con una donna e, cosa addirittura peggiore, con qualcuno che conosceva e apprezzava. La dolce Jenny Bradley. Era sposata. Lei e il marito erano nostri vicini. Siamo fuggite insieme. Abbiamo abbandonato le rispettive famiglie, i mariti e i figli. Ma lei è tornata. Non riusciva a sopportarlo. Si rese conto di amare tutti loro più di quanto amasse me. Ma non si trattava di questo, per quanto mi riguarda. E Mark non mi ha mai, mai, perdonato per il disonore, la pubblica umiliazione. Ecco perché la nostra battaglia per la custodia dei figli fu tanto acre e prolungata. Ecco perché ho preso quella che oggi considero un'iniziativa vergognosa e ho portato qui i bambini.»
«Un'iniziativa vergognosa? È questo che era? Io la definirei sciocca, piuttosto. Sapeva sicuramente che la polizia inglese li avrebbe trovati e riportati a casa.»
Lei annuì. «Presumo di sì. Non ricordo chiaramente cosa pensavo o sapevo all'epoca. Ma dopo l'orrendo giorno in cui vennero... come posso dire... sottratti alla mia custodia, ho capito di doverli lasciar andare. Che non c'era futuro in quel modo. E, nonostante tutto, sapevo che Mark era un buon padre. Migliore di quanto io non fossi come madre. Li amava sinceramente. E la loro casa era la sua. Così decisi di restare lontana dai bambini. Sapevo che, se avessi cercato di ottenere il permesso di vederli, sarei stata vincolata da condizioni, regole, norme, e non potevo sopportare tutte quelle stronzate. Così razionalizzai la situazione, convincendomi che, una volta cresciuti, avrebbero potuto scegliere. Scegliere se vedermi oppure no.»
«Ma non temeva che l'opinione che suo marito aveva di lei, la sua visione dell'accaduto e la sua influenza potessero avere la meglio? Lui avrebbe sicuramente fatto in modo che loro la rifiutassero.»
«Rappresentava un rischio che ero disposta a correre. Ma conosco Mark. Lo conosco benissimo. Sin da quando ero bambina. Facevamo parte dello stesso mondo. Tutti e due membri di famiglie fedeli alla Chiesa d'Irlanda. Vivevamo nella stessa zona di Dublino. Le nostre famiglie si frequentavano. Praticamente, eravamo come fratello e sorella. Non avrei mai dovuto sposarlo. Ho capito subito di aver commesso un errore.» Si alzò per prendere una sigaretta dalla scatola di legno intagliato, posata sulla mensola del caminetto. L'accese, poi si risedette sull'alto sgabello, la luce che le brillava sul viso. «So che non avrebbe mai e poi mai fatto una cosa del genere a Judith. Lei si sbaglia di grosso su Mark.»
«Allora chi può averla fatta? Me lo dica, perché abbiamo un sacco di prove, sa?»
Le raccontò dello studio, del sangue, degli utensili, delle fotografie. Vide il colore defluirle dal viso.
Elizabeth si alzò e raggiunse l'alta credenza nell'angolo. L'aprì e tirò fuori una bottiglia e due bicchierini. Versò il liquore. Cominciò a bere. Lui esitò.
«Avanti, lo assaggi», lo sollecitò lei. «È buono.»
Jack sorseggiò cautamente. Era a base di mele, ne sentì il profumo. Lei si versò un altro bicchiere. Lui scosse il capo.
«Anche questo è prodotto qui nella zona. Da un altro mio vicino che coltiva mele per il sidro. Si potrebbe definire un Calvados fatto in casa. È perfetto per le emergenze.»
Si voltò, a capo chino. La stanza era immersa nel silenzio. Jack sentì il motore di un trattore, proveniente da fuori, che andava su di giri, spinto al massimo per poi rallentare, fino a produrre un fioco rombo. Rimase in attesa. Si guardò ancora intorno. Sulla scrivania addossata al muro di fronte, troneggiava un computer. Brutto e di plastica. Diverso da qualunque altro oggetto presente nella stanza. Sopra il monitor erano appese alcune fotografie, incorniciate. Si alzò, col bicchiere in mano, e si avvicinò per esaminarle. Li riconobbe: Judith e Stephen da piccoli. Le stesse foto che aveva visto allineate sulla parete dello studio di Elizabeth Hill nella casa a Rathmines. E anche altre. Una donna dai capelli scuri con una folta frangia, dall'aria familiare. Abbassò lo sguardo sulla scrivania. C'era una pila di fogli racchiusi in una carpetta dalla copertina di plastica. E di fianco una piccola stampa, un quadro che lui riconobbe all'istante.
«Questo Caravaggio... Sembra che rappresenti un'ossessione per tutti voi. È la terza volta che mi c'imbatto, da quando Judith è morta.»
Lei sollevò la testa e si passò la mano sugli occhi, asciugandoli.
«È grottesco, vero? Dovrei sbarazzarmene. Un tempo ammiravo la tecnica con cui era stato dipinto. Quella strana mescolanza di esplicito realismo e di una sorta di accentuata componente onirica. Tuttavia è il tipo di quadro che puoi apprezzare solo se la violenza non ti ha mai sfiorato. Adesso per me è pornografico. Esalta l'omicidio e se ne gloria. Lo celebra.» Si avvicinò alla scrivania. Indicò la carpetta. «Il saggio di Judith. Me lo ha spedito perché lo leggessi. Ne sono rimasta davvero impressionata, è un ottimo lavoro. Non riesco più a guardare quel quadro. Mi dà il voltastomaco.» Prese la stampa e la stracciò a brandelli, lanciandoli poi nella grata del caminetto. Si versò un'altra dose di liquore e ne bevve metà in un sorso solo. Rimase ferma accanto a lui, guardando le foto. «È lei», sussurrò, sfiorando il viso della giovane donna bruna. «La mia Jenny. Era talmente bella a quei tempi.»
«E adesso?»
Elizabeth sorrise. «Adesso è una donna di mezza età con un'acconciatura elegante e la figura appesantita. L'ho vista quando sono venuta a Dublino. Ha partecipato al funerale. Ha mostrato a malapena di conoscermi. E in seguito, dopo il servizio funebre, aveva invitato tutti a casa sua, ma era evidente che il 'tutti' non includeva me.»
Certo, a quel punto lui riuscì a identificarla. La vicina che aveva compiuto gli anni durante il week-end in cui Judith era stata uccisa. La vicina cui Judith aveva portato i fiori.
«C'è altro che vuol sapere, signor Donnelly? In caso contrario, temo di essere rimasta indietro con il lavoro.» Accese il computer e accostò alla scrivania una sedia con lo schienale diritto.
«Sono stupito», disse lui, raccogliendo la sua ventiquattrore e indicando il monitor. «Pensavo che lei fosse il tipo di persona che predilige la matita e la carta.»
«Necessità fa legge», rispose Elizabeth, la mano destra che giocherellava col mouse. «Ormai lo uso continuamente. Il programma di grafica è rapido e semplice. E, mio malgrado, sono diventata una fan di Internet. Posso leggere i giornali irlandesi ogni giorno e tenermi al corrente su quanto succede a casa. Quindi, signor Donnelly, terrò d'occhio quello che fa, non si preoccupi.»
Lo accompagnò al cancello e aspettò fino all'arrivo del taxi. Lui ripensò a come gli era apparsa quando era arrivato, poche ore prima, quasi simile a una bambina, con i suoi vestiti semplici e i piedi nudi. Adesso sembrava una vecchia. La pelle grigia e cascante, gli occhi opachi, i movimenti lenti e goffi.
«La prego, non dimentichi ciò che le ho detto di Mark.» Gli posò una mano sul braccio. «Le chiedo di prendermi sul serio. Non credo che abbia ucciso Judith. La prego di non proseguire con questa linea d'indagine. Non ne ricaverà nulla di positivo. Lui ha già sofferto abbastanza nel corso degli anni. Non aggravi le sue sofferenze, la prego.»
Quando raggiunse l'aeroporto, era esausto. Voleva solo tornare a Dublino, trovarsi un angolino tranquillo in un pub altrettanto tranquillo e buttarsi su un paio di pinte. Ma l'aereo era in ritardo, inizialmente di mezz'ora e poi di altri quaranta minuti.
Si sedette al bar con un drink. Tutt'intorno a sé, sentiva voci irlandesi. Suoni confortanti, familiari. Sei un imbranato, si disse. Un solo giorno lontano da casa e ti trasformi in un rottame. Non hai spirito d'avventura. A un tratto, si sentì chiamare. Si voltò e riconobbe la donna piccola e bionda dietro di lui.
Aveva passato due giorni a Londra per una conferenza sull'affido, spiegò lei. Tutto molto noioso, per niente divertente.
«Qui» - lui diede qualche colpetto sullo sgabello accanto al proprio -, «siediti. Che cosa bevi?»
Si erano già incontrati più d'una volta. Sempre con Andrew Bowen. In realtà, gli sembrò di ricordare di aver sospettato, un tempo, che potesse esserci qualcosa tra quei due. Ma Andy aveva negato recisamente ed era scoppiato a ridere al solo pensiero. Non Alison, aveva detto. È troppo dannatamente onesta e di saldi principi per avere qualcosa a che fare con un uomo sposato. Un vero peccato, aveva aggiunto, in tono amareggiato.
Jack aspettò le inevitabili domande sull'omicidio, l'arresto, le indagini. Ma non arrivarono. Lei parlò del suo giardino.
«È ridicolo. Sono stata via per tre giorni e tutto quello cui riesco a pensare è l'afide verde sulle rose e se le more selvatiche saranno abbastanza mature per poterle mangiare. La settimana scorsa ho piantato un paio di betulle bianche e spero che il figlio dei vicini me le abbia annaffiate, visto che l'ho pagato per farlo.» Scoppiò a ridere, le fossette che le spuntavano sul viso tondo. «Da quando, l'anno scorso, mi sono trasferita in questa casa di Sandymount, non faccio altro che parlare di giardinaggio. Sono come chi ha appena avuto un figlio. Ho un unico argomento di conversazione.»
«È proprio ciò di cui avrei bisogno anch'io», rispose lui, offrendole un po' di noccioline. «Un hobby. Qualcosa che mi distragga dal lavoro.»
«Già», concordò lei, tra una sgranocchiata e l'altra. «Già, un tempo ero ossessionata dal mio lavoro. Non riuscivo a smettere di pensarci, di parlarne. Tutti i bambini, quelli di cui controllo l'affido, erano come miei figli. Ero sempre a loro disposizione. Mi telefonavano a ogni ora del giorno e della notte. Seccandomi, tormentandomi. E i genitori, Cristo, erano ancora peggio. E io, la babbea, ero bloccata nel bel mezzo di tutto.»
«Anche Amy Beckett era così? È una dei tuoi ragazzi, giusto?»
«Ah, vedo che Andy ha parlato!» Scosse il sacchetto di noccioline per versarsene un po' sul palmo. «In realtà, non ho mai avuto nessun problema causato da Amy o legato a lei. È stata davvero fortunata con la sua famiglia affidataria. Sono persone molto simpatiche e sono andati perfettamente d'accordo sin dall'inizio. Il che è un bene, perché posso dirti che non sarebbe affatto piacevole inimicarsi quella ragazza. È dura, risoluta, motivata. Tutto questo e molto di più.»
«Sembrerebbe identica al padre.»
«Infatti.» Alison lo guardò. «Certo, tu lo conoscevi, suppongo. Io non ho mai avuto il piacere.»
Jack si sporse in avanti e le tolse di mano il sacchetto di noccioline, capovolgendolo e indicando con orrore simulato che era vuoto.
«Scusa.» Lei sorrise. «Dai, prendiamone delle altre. Sto morendo di fame.»
«E facciamoci un favore», disse lui mentre, con un gesto, chiedeva il bis al barman. «Non parliamo di niente che sia lontanamente collegato al lavoro. Ne sono nauseato e mi dispiace di aver sollevato l'argomento. Dammi qualche nocciolina e parlami ancora del tuo giardino.»
Lei lo intrattenne finché non vennero chiamati per il decollo. Jack ne rimase sorpreso: non corrispondeva alla descrizione che gliene aveva fatto Andy. Osservò la sua testa bionda durante il volo e s'incamminò al suo fianco mentre attraversavano la zona riservata agli arrivi nell'aeroporto di Dublino.
«Niente bagaglio», disse lei, indicando la propria valigetta dotata di rotelle.
Quando sbucarono nel crepuscolo esterno, per lui fu logico offrirle un passaggio. E fu persino più logico per lei invitarlo in casa per mangiare un boccone e magari bere qualcosa di buono.
«Mi fai vergognare», disse Jack mentre si aggirava nell'ampio, bellissimo salotto di Alison. «Come riesci a far sembrare tutto tanto perfetto?»
«È merito dell'amore», rispose lei. «Mi sono innamorata di questa casa due anni fa. Era un vero disastro, praticamente decrepita. Ho impiegato tutto questo tempo per renderla almeno presentabile.»
Le pareti delle stanze al pianoterra erano dipinte in colori brillanti come pietre preziose. Verde muschio e blu scuro. La cucina era di un giallo acceso. Jack pensò al proprio appartamento. Pareti bianche. Nessun elemento decorativo. E alla casa in cui aveva vissuto con Joan per tutti quegli anni. Lei lo aveva assillato e supplicato, aveva imprecato e minacciato. Ma lui non aveva mai ceduto. Non avrebbe apportato nessuna miglioria. Si sedette a guardare Alison che cucinava. Preparando un sugo di pomodoro per la pasta. Affettando peperoni rossi e spezzettando la feta per unirli all'insalata di lattuga riccia. I suoi movimenti erano armoniosi e precisi.
«Tieni.» Si voltò verso Jack, stringendo una bottiglia e un cavatappi. «È un lavoro da uomo.»
Lui annusò il tappo. «Mmm, che profumo!»
Lei gli tolse la bottiglia di mano e cominciò a versare.
«Il profumo non è niente in confronto al gusto», dichiarò, sollevando il bicchiere.
Lui osservò il suo collo mentre deglutiva. Era lungo e bianco. All'improvviso, fu assalito dal desiderio di morderle la pelle. Si accorse di arrossire mentre ci pensava. Sollevò il proprio bicchiere e bevve. Il vino era ricco e fruttato, con un retrogusto lievemente acidulo. Alison l'osservò.
«Buono», disse lui. «Cos'è?»
«Guelbenzu. Una di quelle vigne spagnole che tutt'a un tratto sono diventate di ottima qualità.»
«Oh, t'intendi di vini?»
Lei sorrise e riempì di nuovo i bicchieri. «Solo di quel tanto sufficiente per bere quelli buoni. Tutto qui. Come questo, per esempio.»
«Ti piacciono le cose di qualità! Buon cibo, vino pregiato...»
Alison fece un passo verso di lui. Gli posò la mano sulla spalla. Jack riuscì a intravedere la forma del suo seno sotto la camicetta bianca.
«Sì. Mi piace sentirmi appagata. Mi piace divertirmi.»
Lui le posò una mano sulla spalla, poi fece correre i polpastrelli lungo la sua clavicola, fino all'incavo alla base del collo. Lei deglutì e Jack sentì le proprie dita alzarsi e abbassarsi insieme col movimento. Quando Alison parlò, lui percepì la vibrazione emessa dalla sua laringe.
«Mi sono sempre chiesta che tipo fossi, Jack. Andy non mi ha mai voluto dire granché. È troppo discreto. Ho saputo che ti sei separato da tua moglie. È vero?»
«Sì, è vero», rispose lui. Bevve un'altra sorsata di vino. Si chinò in avanti e la baciò sulla guancia.
Lei spostò il viso, in modo da posare la bocca su quella di lui. Jack la baciò di nuovo e sentì le labbra di Alison che si schiudevano.
Lei si scostò e allungò una mano per spegnere il fornello. «Mangeremo più tardi», decise.
20
Aveva mai visto un tramonto simile? Non riusciva a ricordare che le fosse mai capitato. Si sedette sulla terrazza davanti a casa e guardò verso il mare. Davanti a lei si stagliava il blu scuro dell'orizzonte e, sopra di esso, l'azzurro del cielo screziato di nuvole con incredibili sfumature rosa, arancioni e dorate. Rimase seduta a guardare finché il panorama non venne rifratto e distorto dalle lacrime che le colmavano gli occhi. Ecco, quindi, cos'era successo durante tutti gli anni in cui era rimasta rinchiusa, isolata dal resto del mondo. Sera dopo sera, Daniel Beckett e la moglie si erano seduti lì, su quella panca, a quel tavolo, e avevano ammirato la bellezza che in quel momento Rachel aveva di fronte. E lei non l'aveva mai saputo.
Sollevò il drink e ne aspirò l'aroma. La dolcezza del gin, il pizzicore dell'acqua tonica e l'asprezza dello spicchio di limone. Fece roteare il liquido, osservando le bollicine che salivano in superficie, simili a lunghe file di perline, sentendo il tintinnio musicale del ghiaccio, e poi bevve. Il suo rapporto con l'alcol stava migliorando. Nelle prime settimane dopo la scarcerazione, lo aveva trovato terrificante. Il modo in cui il suo corpo cessava di appartenerle. Il modo in cui la sua voce cominciava a farsi biascicata e farfugliante. La piena di emozione, euforia, benessere, eccitazione che si abbatteva su di lei trascinandola, come un'onda che sferzi la spiaggia e poi si ritragga, e infine la scaricava al margine ella marea, ridotta a un ammasso patetico.
Ma adesso il suo atteggiamento era più misurato. Bevve e sentì il freddo scenderle lungo la gola e il rossore imporporarle le guance. Quella giornata era stata quasi perfetta. £ la serata sarebbe stata ancora meglio.
Si alzò e raggiunse le portefinestre che davano sul lungo e luminoso soggiorno. Si fermò, in ascolto. Si sentiva della musica, Frank Sinatra. Dalla cucina attigua arrivava un'altra voce che gorgheggiava insieme con lui. Rachel domandò: «Ursula, hai bisogno di una mano? Posso fare qualcosa?»
Ursula comparve sulla soglia. Si scostò dal viso un paio di ciocche di capelli e si asciugò le mani sul grembiule a righe.
«No.» Sorrise. «Hai già fatto sin troppo, per stasera. Mettere a letto i bambini è un'impresa sufficiente a stremare chiunque. Tieni» - le porse la bottiglia di gin -, «prendine ancora.»
Rachel aveva giocato a nascondino coi bambini, in giardino. Le avevano mostrato tutti i loro speciali nascondigli segreti. Il capannone con la serratura rotta. Il tunnel di plastica per i fiori in cui si rifugiavano nei giorni di pioggia. I tre enormi bidoni per il compost. Uno pieno di una scura mistura friabile, uno colmo di rifiuti del giardino e della cucina, e il terzo vuoto, abbastanza grande per potercisi infilare, con un coperchio facile da aprire e richiudere. C'erano una piattaforma costruita tra i robusti rami di una quercia e una scala di corda per raggiungerla. C'era giusto lo spazio sufficiente per un adulto, un adulto minuto. Offriva una perfetta visuale sulle finestre della camera da letto della casa. E tutti i piccoli sentieri e i tunnel in mezzo alle fitte felci, il ginestrone e i pini in cima alla scogliera.
«In realtà, non dovremmo giocare al di fuori dello steccato del giardino», le aveva confidato Jonathan. «Hanno paura che cadiamo sui binari oppure sulle rocce. Pensano che siamo stupidi.»
«Sì.» Laura aveva annuito energicamente, protendendo il più possibile il mento e poi posandolo sui bottoni della camicetta. «Stuuupidi, pensano che siamo stuuupidi. Ma non lo siamo, vero?»
«No.» Rachel l'aveva baciata. «No, non siete stupidi. Siete intelligenti. Ora mostratemi qualcos'altro. Mostratemi dei nascondigli davvero sbalorditivi, dove nessuno penserebbe mai di cercarvi.»
L'avevano accompagnata lungo un lato della casa, avevano superato furtivamente, con un dito accostato alle labbra, la porta di vetro della cucina e fatto scorrere di lato quella che dava sul garage.
«Guarda.» Il bambino aveva indicato con la punta della scarpa le assi di legno che combaciavano perfettamente e formavano un lieve incavo nel pavimento. «Quello è un buon nascondiglio.»
«Ma non abbiamo il permesso di entrarci. Papà dice che è pericoloso.» Laura sembrava preoccupata.
«Che cos'è?» Rachel si era chinata per vedere meglio.
«Serve a... sai...» Jonathan si era posato le mani sui fianchi, assumendo un'aria d'importanza virile. «Serve ad aggiustare le cose. Quando sotto la macchina c'è qualcosa di rotto. Papà lo fa, a volte. Gli piace ripararla da solo.»
Rachel aveva allungato una mano e, facendo leva, aveva staccato una delle assi da quella adiacente. Una fossa, naturalmente. Daniel era sempre stato bravo con gli aggeggi meccanici. Capace di smontare motori, orologi, macchine per cucire, radioline a transistor, per poi rimontarli perfettamente.
Con le mani posate sulla spalla di ognuno dei bambini, disse: «Credo che non dovreste nascondervi qui. Penso che, in questo caso, vostro padre abbia ragione. Inoltre, probabilmente è tutto molto unto e puzzolente, lì sotto».
«E molto buio.» Il viso di Laura cominciava a raggrinzirsi.
«Ma il buio è buono», l'aveva tranquillizzata Rachel, piegandosi per guardarla in faccia. «Il buio non fa paura, ti protegge.»
Si era seduta accanto al letto della bambina e l'aveva guardata attentamente. Aveva osservato come le sue mascelle stringevano il pollice, le guance minute che tremolavano mentre lei succhiava e succhiava e poi, mentre sprofondava sempre più nel sonno, si rilassavano e allentavano la presa, tanto che il pollice le era scivolato dalla bocca, bagnato e scintillante, una goccia di saliva che le lasciava sul mento un'argentea traccia di bava. Rachel l'aveva asciugata con un angolo di lenzuolo. Aveva accarezzato i soffici capelli bruni della piccola e l'aveva baciata ancora una volta, posandole le labbra sulla guancia. Poi si era alzata ed era uscita dalla stanza.
Ursula aveva deciso che avrebbero mangiato in terrazza. Per approfittare della bella serata. Per godersela finché ne avevano la possibilità.
«Tieni.» Passò un cavatappi a Rachel. «Fa' tu gli onori di casa.»
Era uno di quelli di legno, con una lunga asta a succhiello e una sezione superiore e una inferiore che dovevano ruotare l'una contro l'altra ed estrarre agevolmente il tappo dal collo della bottiglia. Rachel cercò di usarlo. Si accorse che Ursula la stava fissando e cominciava a farsi prendere dall'ansia, a spazientirsi. Il cibo era pronto, le grandi ciotole di zuppa di pesce iniziavano a raffreddarsi.
«Mi spiace. Non riesco a capire come funziona. Non ne avevo mai visto uno simile. Pensaci tu. Io vado a prendere il resto del cibo in cucina.»
C'erano panini rotondi, scaldati nel forno per accompagnare la zuppa, e hamburger fatti in casa. Lei aveva osservato Ursula che impastava la carne macinata insieme con cipolla e prezzemolo, legandola con un grosso tuorlo arancione, ed era stata assalita da un senso di nausea. Eppure, cotti, bruciacchiati all'esterno, non sembravano poi tanto male. La padrona di casa aveva preparato anche delle patatine fritte. French fries, le chiamava, sottili bastoncini di patate, croccanti e salati. E c'era un'insalata di lattuga, pomodori ed erba cipollina. «Tutti raccolti qui nell'orto», spiegò in tono orgoglioso. E una ciotola di maionese e vasetti di senape e sottaceti di ogni genere.
Mangiarono in silenzio. Era tutto buonissimo. Delizioso. Lei osservò Ursula. Sembrava golosa. Si riempiva la bocca di cibo, aprendola a tal punto che Rachel riusciva a vederne il contenuto, poi sollevando il bicchiere e versandosi il vino in bocca. Rachel ebbe un conato di vomito. Allontanò il piatto da sé.
«È stato un vero e proprio banchetto. Grazie.»
«Non sarai già sazia! Ci sono una torta di mele fatta in casa e il gelato. E anche la panna montata, se vuoi. Avanti, Barbara. Non lo faccio spesso. Non riuscirei più a entrare nei vestiti, se mangiassi sempre in questo modo. Ma pensavo che stasera ci saremmo premiate. Hai l'aria di averne bisogno. Passami il cavatappi. Voglio aprire un'altra bottiglia.»
Rachel le guardò le mani, il modo in cui strappava la carta stagnola che rivestiva il tappo. Il bordo della carta era affilato. Ursula si tagliò. Una sottile riga di sangue le comparve sul polpastrello, ma lei sembrò non farci caso. Si alzò per versare il vino e barcollò, rovesciandolo sulla tovaglia, mentre alcune goccioline le schizzavano sui calzoni bianchi.
«Merda.» Cominciò a ridere. «Lo sapevo. Vado a prendere uno strofinaccio.»
Il telefono prese a squillare.
«Rispondi tu, Barbara, vuoi? Se è Dan, spiegagli che ho da fare. Digli che sto benissimo e che lo amo.»
C'erano telefoni dappertutto. Lo aveva già notato. Sembrava che in ogni stanza ce ne fosse almeno uno. Oltrepassò l'apparecchio rosso in salotto. Raggiunse l'ingresso. Chiuse la porta. Sollevò la cornetta. Rimase in ascolto. Parlò. Abbassò la cornetta, poi la sollevò di nuovo e la posò accanto al telefono. Si allontanò e uscì, a ritroso, sentendo lo scroscio dell'acqua corrente in cucina.
«Chi era?» La voce di Ursula era sonora, troppo sonora.
«Niente, avevano sbagliato numero.»
Cominciava a farsi tardi. Cominciava a calare l'oscurità.
«Prendi il dolce, Barbara. È in frigo. E c'è una bottiglia di Baileys sulla credenza. Beviamo anche un po' di quello. Lo adoro.»
Lei versò il liquore in due bicchieri. In terrazza, Ursula aveva acceso delle candele e una lampada da esterno che penzolava dall'apposito sostegno fissato al muro. La luce tremolò sopra di lei, mentre si appoggiava allo schienale della sedia, gli occhi che le si chiudevano. Sarebbe stato così facile, pensò Rachel. S'infilò una mano in tasca ed estrasse un flaconcino di plastica pieno di pillole. Lo stappò. Tirò fuori due delle capsule rosse. Ne aprì l'opercolo di plastica e versò la fine polverina bianca in uno dei bicchieri. Si voltò di nuovo a guardare dietro di sé. Ursula si era alzata e aveva raggiunto l'estremità della terrazza. Stava oscillando da una parte all'altra. Rachel prese un cucchiaino e mescolò finché la polverina bianca non si sciolse. Chinò il capo sul bicchiere e inspirò a fondo. Riuscì a sentire solo l'odore di crema, caffè e alcol. Uscì e offrì il bicchiere a Ursula. La guardò chinarvi sopra la testa.
«Uau, che profumo!» esclamò.
Si addormentò ancor prima di averlo finito. La testa le cadde in avanti, sul tavolo. Rachel rimase seduta a guardarla. Non sembrava più così perfetta, con i pantaloni macchiati, i lineamenti del viso allentati, la bocca aperta, intenta a russare sonoramente. Ripensò alla voce di Daniel, a com'era suonata al telefono. Non l'aveva più sentita, dopo quel giorno in tribunale. Quando lui l'aveva smentita e le aveva voltato le spalle. Quando l'aveva tradita.
«Ciao, tesoro», aveva esordito Daniel e poi, non ottenendo risposta, aveva aggiunto: «Sei tu, Ursula? Come stai, amore? Come va? Come stanno i bambini? Come sta andando con la tua rozza beniamina? Ti diverti?»
«Chi parla?» aveva chiesto Rachel, alterando la voce. «Ha sbagliato numero.» Poi aveva riagganciato.
Lui avrebbe riprovato, ma avrebbe sentito solo il segnale di occupato. E avrebbe rinunciato. Avrebbe ritelefonato il mattino seguente. Ma, a quel punto, sua moglie non avrebbe ricordato nulla della sera precedente.
Rachel si alzò. Girò intorno al tavolo e costrinse Ursula ad alzarsi. «Vieni. È ora di andare a letto.»
Gli occhi della donna si aprirono e subito si richiusero, mentre il suo corpo si afflosciava. In parte trasportandola e in parte trascinandola, Rachel la condusse in salotto. La fece sdraiare sul divano. La spogliò. Raggiunse l'armadio in corridoio, dove trovò una coperta. Vi avvolse Ursula. Si fermò accanto al divano e la guardò. Dormiva come una bambina. Dormiva come i suoi bambini al piano di sopra. E adesso, pensò Rachel, la casa è a mia disposizione. Prese il suo bicchiere. Si voltò verso l'alto specchio che copriva una parete. Brindò alla propria salute e bevve.
Era mattina quando si svegliò. Fu il pianto di un bimbo a destarla, più sonoro ed esigente di secondo in secondo; qualcuno le tirava le coperte, la voce di una bambina nell'orecchio, una voce che la chiamava.
«Svegliati, signora delle pesche, svegliati, per favore. Il bambino ha fame, è bagnato fradicio e io non so dov'è la mamma.»
Rachel era sdraiata su un fianco, la luce del sole che trasformava in un color crema il giallo brillante delle tende. Sollevò la testa. Laura era ferma accanto al letto, tenendo in equilibrio il fratellino sul ginocchio. Il viso del piccolo era paonazzo, un miscuglio di lacrime e muco che gli colava lungo le guance grassocce. Singhiozzava e ansimava, frenetico per la fame. Odorava di ammoniaca. Lei scostò le lenzuola e si alzò.
«Dammelo.» Allungò le mani e lo prese in braccio. «La mamma sta dormendo al piano di sotto. Non disturbarla. Fammi vedere dove tiene i pannolini.»
Fu tutto molto semplice e naturale. Così familiare! Posò il bimbo su una salvietta stesa sul pavimento del bagno, togliendogli il pagliaccetto fradicio. Lo lavò, lo cosparse di borotalco, gli mise il pannolino pulito. Gli trovò una tutina di spugna. Gli asciugò il viso e lo baciò.
«E adesso», disse a Laura e a Jonathan, che li aveva raggiunti, «chi vuole la colazione?»
La cucina al pianoterra era immacolata. Aveva lavato i piatti, pulito i piani di lavoro, lasciato tutto pronto per la mattina seguente. Sistemò il bimbo nel seggiolone e gli scaldò un biberon di latte. Versò i cereali nelle ciotole e infilò le fette di pane nel tostapane. Diede ai due bambini più grandi un bicchiere di succo d'arancia e preparò un bricco di caffè. Presto regnarono la calma e l'armonia. E poi sentirono un rumore proveniente dal salotto.
«Cos'è?» chiese Rachel.
«È la mamma», rispose Jonathan. «Stanotte ha dormito sul divano. Credo che stia vomitando.»
Lei lasciò i bambini impegnati a mangiare e raggiunse l'altra stanza. Ursula era seduta, il viso terreo. L'odore acre del vomito riempiva la stanza. Rachel si fermò a guardarla. Ursula si coprì il volto con le mani.
«Che cos'è successo?» chiese.
«Non te lo ricordi?»
Ci fu una pausa di silenzio.
«Credo che tu abbia bevuto un po' troppo», aggiunse Rachel, lentamente. «Sei svenuta qui, così ho pensato che fosse meglio lasciarti sul divano.»
«E così? Come ho fatto a finire così?» Abbassò lo sguardo sul proprio corpo, stringendo energicamente a sé la coperta.
«Ah, non ricordi nemmeno questo, vero?»
Un cenno di diniego.
«Hai insistito per ballare. E poi hai voluto a tutti i costi fare lo spogliarello. Era impossibile fermarti.»
Le lacrime cominciarono a scorrere sul viso infelice di Ursula. Per un attimo, Rachel provò quasi compassione per lei.
«Non preoccuparti per quello che mi hai detto ieri sera», la tranquillizzò. «Resterà tra noi due. D'accordo?»
Ursula arrossì. Distolse lo sguardo, poi lo riportò su di lei. «I bambini?» s'informò.
«Stanno benissimo. Ho cambiato il piccolo e gli ho dato il biberon, e gli altri due stanno facendo colazione. Non preoccuparti per loro. Senti» - si sedette accanto a lei e le prese la mano -. «Senti, ci siamo semplicemente divertite un po'. Non mi è affatto dispiaciuto. Sai che ti dico? Sali di sopra, fatti un bel bagno e poi va' a letto. Rimarrò qui a badare ai bambini finché non ti sentirai meglio. Che te ne pare?»
Le portò un vassoio in camera. Una tazza di tè e del pane tostato.
«Uuh.» Ursula fece una smorfia mentre beveva. «Di solito non metto lo zucchero.»
«Bevi», le disse Rachel. «Il tè dolce è proprio quello di cui hai bisogno per curare i postumi di una sbornia. Mio padre ne vantava sempre le virtù terapeutiche.»
Tè con aggiunta di zucchero e di altri due sonniferi. L'avrebbero tenuta tranquilla per tutto il giorno. Rachel la guardò ricadere all'indietro sui cuscini.
«Li accompagno a fare una passeggiata, d'accordo?»
Ursula sorrise con aria sonnolenta. «Prendi la macchina, se vuoi. Sei così gentile e premurosa. Te ne sono davvero grata. E scusami.»
Rachel rimase ferma sulla soglia della camera a guardare Ursula mentre gli occhi le si chiudevano. Era splendida, la stanza in cui aveva dormito, con lunghe finestre affacciate sul giardino e, oltre, sulla cima della scogliera e sul mare retrostante. Era una stanza colma di segreti. La cassaforte sotto la moquette nell'angolo. Il cofanetto dei gioielli in cima all'armadio. Il diario nel primo cassetto della piccola scrivania ornamentale. Lo dicevano sempre, le ragazze dentro. Ti stupirebbe scoprire come le persone annotino ogni cosa. Il numero PIN delle loro carte di credito. Il codice del loro sistema d'allarme. La combinazione della loro cassaforte. A quel punto, lei li conosceva tutti. E conosceva la casa, dentro e fuori. La sera prima era salita nella stanza nella torretta. La stanza di Daniel. Aveva acceso la lampada, si era seduta alla sua scrivania e aveva guardato le fotografie allineate sulla mensola. Aveva cercato tracce della propria vita e le aveva trovate. La foto di Martin con la cornice d'argento. Scattata da Daniel con la macchina fotografica di Rachel, in una giornata estiva precedente al loro matrimonio, nel giardino posteriore della casa dei genitori. Aveva capovolto la cornice e spinto da parte i fermagli che la fissavano. Aveva posato sulla scrivania il vetro e il fondo di cartone ed estratto la foto. Metà dell'istantanea era stata piegata all'indietro, nascosta. Era la metà che ritraeva lei. Martin era seduto su una sdraio. Si era tolto la camicia. La sua pelle era molto chiara. Lei era seduta sul prato, con la testa piegata all'indietro per guardarlo. Sembrava così giovane e carina. Aveva alzato gli occhi e visto il proprio riflesso nel buio della finestra. Abbassando nuovamente lo sguardo, aveva riflettuto, soppesato la situazione, chiedendosi cosa fare. E poi, con un sospiro, aveva ripiegato la foto, rimontato la cornice e l'aveva posata sulla mensola, nel punto esatto in cui l'aveva trovata.
Aveva trovato anche la stanza in solaio. I bambini le avevano mostrato la scaletta e la piccola porta in cima.
«È chiusa a chiave», aveva detto Jonathan. «Non ci è permesso di salire lassù. È lì che Babbo Natale tiene i nostri regali.»
Ma lei aveva preso il mazzo di chiavi lasciato da Ursula sul tavolo della cucina e aveva individuato quella giusta. Aveva aperto la porta ed era entrata, chinando la testa. Aveva tastato la parete, cercando l'interruttore della luce. Notato che la stanza era vuota, eccettuati la brandina nell'angolo, un sacco a pelo, una pila di scatoloni. Richiuso a chiave la porta.
E adesso stava guidando la macchina di Ursula. Cercando di rammentare. Cosa doveva fare con i piedi e le mani? Come coordinarli, muoverli in tandem? Ricordarsi di usare lo specchietto retrovisore, ricordarsi di mettere la freccia, stringendo talmente forte il volante mentre curvava che l'auto sbandò, oltrepassando la riga bianca. Il bambino, seduto sul sedile del passeggero, sollevò la testa dal suo Game Boy, sospirò e disse: «Abbiamo il servosterzo, sai. Questa è una Saab di alto livello. Molto costosa».
Lei gli sorrise mentre rispondeva: «Grazie, Jonathan. Non sono molto brava con le auto».
Risalirono la collina fino al villaggio e lei ripensò alle occasioni in cui aveva arrancato, ansimando, lungo quello stesso tragitto, sempre l'unica persona a piedi, mentre chiunque la superasse guidava un'auto identica a quella.
Si fermarono sulla cima. Parcheggiò meticolosamente, consapevole dell'occhiata saccente del bambino quando il piede le scivolò dalla frizione mentre faceva retromarcia, tanto che la macchina si fermò sobbalzando. Ma c'erano gelati da comprare e mangiare, una temporanea distrazione mentre lei scendeva lungo l'altro versante della collina per raggiungere lo shopping centre più vicino. Riuscì a infilarsi in un posto auto senza incidenti. Tolse la chiavetta dall'accensione e raccomandò a Jonathan, seduto davanti, e a Laura che era sistemata sul sedile posteriore insieme col bimbo: «Restate qui. Mi ci vorrà solo un attimo. Dove vi piacerebbe andare quando torno? Sulla spiaggia, alla sala giochi? Decidete voi».
Costeggiò rapidamente la fila di negozi finché non trovò quello che cercava. Il piccolo chiosco che duplicava le chiavi. Consegnò l'intero mazzo. Chiavi di casa, chiavi della macchina, chiavi del garage, chiavi della cassaforte. Aspettò. Prese le copie e se le infilò in tasca. Tornò alla macchina. Intravide la propria immagine nello specchietto laterale. Si scostò i capelli dal viso, spingendoli indietro. Sorrise. Vide i volti dei bambini illuminarsi, mentre apriva la portiera e assumeva di nuovo il controllo.
Era pomeriggio inoltrato quando li riaccompagnò a casa. Erano esausti. Si erano sfiniti sull'autoscontro e sulla giostra, con i flipper e i videogiochi. Lei guidò lentamente e con attenzione. Le sembrò che i bambini non notassero dove stavano andando. Svoltò nel tranquillo cul-de-sac e girò intorno al prato, cercando una casa in particolare. Fermò l'auto.
«Ora, Laura, voglio che tu venga con me, solo per un po'. Jonathan, tu rimani qui a badare al piccolo. Okay?»
Si era aspettata delle lamentele, ma lui si limitò ad annuire e ad allungare una mano per giocherellare con le manopole della radio. Lei prese Laura per mano e raggiunsero la porta d'ingresso. Suonò il campanello. Sentì dei passi e vide la sagoma di una donna dietro il pannello di vetro smerigliato.
«Come posso aiutarla?» La donna era scalza e indossava un largo abito a fiori. Doveva essere appena stata in giardino, pensò Rachel, notando i pesanti guanti di gomma che indossava.
«Mi dispiace disturbarla, ma mi stavo chiedendo una cosa. Parecchi anni fa, vivevo in questa casa. Sono stata via a lungo ed ero curiosa. Le dispiacerebbe se dessi una rapida occhiata in giro?»
La donna era gentile, educata. Indietreggiò per lasciarle entrare. Rachel guardò lungo il corridoio, verso la cucina.
«Vada pure», l'autorizzò la donna. «C'è un po' di disordine. È domenica, sa com'è.»
Rachel entrò in salotto con Laura. Sentì il sudore imperlarle la fronte e la schiena. Guardò in direzione del giardino, della serra. Si coprì la bocca con la mano.
«È scomparsa», disse. «È tutto diverso.»
«Sì.» La donna si chinò per raccogliere un paio di scarpe da ginnastica e un berretto da baseball dal lucido parquet. «Sì, credo che siano cambiate parecchie cose, nel corso degli anni. Ha una storia interessante, questa casa, lo sapeva? È successo prima che lei venisse ad abitare qui?»
«Una storia interessante?»
«Qualcuno è stato ucciso in questa casa. Oh, secoli fa. Ma in seguito sono stati effettuati parecchi lavori. Non da noi, ma dalle persone che la comprarono subito dopo il fattaccio. In realtà, non l'abbiamo pagata molto proprio per questo motivo. Un tempo veniva un sacco di gente a curiosare. A causa di ciò che era successo.»
Rachel si avvicinò alla porta che dava sul giardino. Era sparito tutto. Il suo appezzamento meticolosamente seminato, il suo stagno, la sua bordura erbacea. Adesso c'era solo un prato, sul quale stava giocando una banda di ragazzini. Sentì Laura che le tirava la giacca e cominciava a piagnucolare. Si chinò e la prese in braccio.
«È stanca, ha avuto una giornata intensa», spiegò.
«È adorabile. Ho sempre desiderato una figlia, ma, a quanto pare, riesco ad avere solo maschi.» Si diede qualche colpetto sulla pancia arrotondata. «Anche questo, un altro piccolo David Beckham.»
Rachel sorrise e accarezzò i serici capelli di Laura.
«Sua sorella maggiore ha abitato qui, da piccola. La sua camera era al piano di sopra. Posso mostrargliela?»
«Certo, perché no? Ma non faccia caso al disordine.»
Se la prese comoda, passando di stanza in stanza, spiegando tutto alla bambina che era appoggiata, con aria sonnolenta, alla sua spalla. La donna la stava aspettando in fondo alle scale.
«Grazie», le disse Rachel. «È stata molto gentile. Gliene sono davvero grata. Significa molto per me.»
«Davvero? Mi stupisce.» La donna aveva l'aria curiosa. «Non mi sarei mai aspettata che tornasse. Dopo quello che ha fatto.»
Rachel la guardò. Cercò di parlare, ma le parole si rifiutarono di uscirle di bocca.
«È proprio lei, vero? L'ho intuito non appena l'ho vista. Voleva tornare sulla scena del delitto, si tratta di questo? Sono sbalordita. Pensavo che succedesse solo nei film.»
Rachel posò la mano sul chiavistello.
«È tutto a posto. Non mi dispiace. Sono semplicemente sorpresa, tutto qui. La credevo in prigione.»
«La prego.» Rachel protese la mano. «La prego, non aggiunga altro.»
La donna sorrise. «Meglio che se ne vada. Mio marito non sarebbe molto contento di trovarla qui. Ma, per quanto mi riguarda, be', è successo tanto tempo fa. Vivi e lascia vivere, è questo il mio motto. Ma la bambina non può certo essere sua!»
Il tranquillo cul-de-sac non distava molto dalla casa sulla scogliera. Cinque o sei chilometri, non di più. Lei scese rapidamente la collina in auto, lasciando il villaggio. I pneumatici stridettero sulla calda superficie stradale. Il bimbo si era addormentato e dondolava sul suo seggiolino. Laura sonnecchiava accanto a lui. Jonathan aveva gli occhi chiusi. La strada descriveva una curva, dietro la quale riuscì a vedere le felci, il ginestrone della scogliera e il mare retrostante. Premette l'acceleratore. L'auto balzò in avanti. Jonathan aprì gli occhi. Raddrizzò la schiena.
«Veloce», la riprese. «Troppo veloce. Rallenta.»
La casa era immersa nel silenzio quando lei portò cautamente il bimbo addormentato fino alla culla e ve lo adagiò. Si fermò davanti alla camera di Ursula e guardò dentro. Anche lei era profondamente addormentata. Rachel sentì accendersi il televisore al pianoterra e poi squillare il telefono. Captò la voce di Jonathan mentre oltrepassava la porta del salotto.
«Sì, papà, siamo usciti tutti con la signora. La mamma non sta bene. Ha un brutto mal di testa. È a letto. Torni a casa presto? Bene. Ciao.»
«Che cosa ti ha detto?» Lei sentì il battito cardiaco che cominciava ad accelerare.
«È già in viaggio. Arriverà fra meno di un'ora.»
Rachel rimise le chiavi nell'anello accanto alla porta della cucina. Si guardò intorno ancora una volta. Era tutto in ordine. Preparò dei sandwich per i bambini e portò loro un bicchiere di latte.
«Ora vado. Arrivederci.»
Loro alzarono la testa per guardarla. Laura si alzò, le si avvicinò e allungò le braccia verso l'alto. Rachel si chinò per baciarla.
«Ciao, piccola mia. Ci vediamo presto.»
Attraversò rapidamente il prato in direzione del bordo della scogliera. Sarebbe stato più facile allontanarsi da quella parte. Non voleva rischiare d'incontrare l'auto di Daniel lungo la strada. Sentì le chiavi tintinnarle nella tasca mentre si muoveva. E pensò a tutto quello che si era lasciata dietro. Impronte digitali su ogni superficie possibile e immaginabile. Capelli sui cuscini e sulle lenzuola del letto dove dormivano Daniel e Ursula; un paio di orecchini di perline nascosti nella polvere sottostante. Fibre dei suoi vestiti lasciate sui mobili e un bottone della sua giacca sotto i cuscini del divano. Era tutto in ordine. Era tutto pronto. E presto lo sarebbe stata anche lei.
21
Adesso c'era un'altra piantina fissata accanto alla prima, sopra il suo letto. L'aveva disegnata Rachel quando era tornata dalla casa sulla scogliera. La casa chiamata Spindrift, come gli spruzzi che vengono trasportati dal vento lungo la superficie del mare. Agitati dalla brezza, turbinando e roteando, uno strato di bianco che nasconde la sommità delle onde, impedendo di vederne l'altezza. Ma ormai lei riusciva a vedere tutto, mentalmente. Si era seduta, con accanto un grosso foglio di carta, una matita e un righello, e aveva disegnato ogni particolare. La planimetria della casa, piano per piano. Le stanze, le finestre, le porte. Aveva evidenziato il confine col giardino. L'orto, la bordura erbacea, il prato, gli alberi. Poi aveva aggiunto la famiglia. Disegnato le figure, stilizzate ma riconoscibili. Daniel con i capelli scuri e la barba. Ursula con la lunga treccia bionda. E i bambini. Dopo gli ultimi ritocchi, appoggiata allo schienale della sedia, aveva ammirato il risultato. Poi aveva attaccato la nuova piantina accanto all'altra. Era pregevole. Era finita.
A quel punto, c'era qualcos'altro che doveva fare: incontrare sua figlia ancora una volta. Stavolta aveva seguito i canali ufficiali. Aveva chiesto ad Andrew Bowen di organizzare l'incontro e lui aveva parlato con l'assistente sociale che si occupava di Amy. I due si erano accordati. Rachel e Amy si sarebbero incontrate in quello che loro definivano un campo neutro, così come avevano già fatto parecchie volte in passato, quando lei era ancora in prigione. Le sarebbe piaciuto che, una volta tanto, potessero vedersi all'aria aperta. Magari in fondo al molo occidentale, dove gli enormi blocchi di granito che tenevano a bada il mare venivano intiepiditi dal sole. O, addirittura, in uno dei parchi cittadini. Nel St. Stephen's Green, dove Rachel la portava sempre da piccola per dar da mangiare alle anatre selvatiche schiamazzanti. O a Merrion Square, per sedersi sull'erba tra le eleganti aiuole piene di variopinte begonie carnose. O, meglio di ogni altra cosa, negli Iveagh Gardens, nascosti dietro i lunghi edifici grigi della Concert Hall e della National University, selvatici e invasi dalle erbacce, le loro sculture mezze rotte, crollate tra la boscaglia. Un luogo in cui lei era solita recarsi quando frequentava l'università, per sdraiarsi al sole e sognare.
Ma era impossibile, le aveva detto Andrew Bowen. Sarebbe dovuta andare nel quartier generale del Dipartimento della libertà vigilata e dei servizi sociali.
«Si trova a Smithfield, dove un tempo c'era il mercato del bestiame. Ma adesso non riusciresti a riconoscere il posto, è pieno di nuovi edifici eleganti. Ricordi come ci si arriva? Vuoi che ti accompagni o preferisci andarci da sola?»
Aveva scelto di andarci da sola. Di camminare lungo i Quays, oltrepassare con repentino terrore le Four Courts, con l'impressione che la massiccia mole dell'edificio, dotato di colonne e di una cupola di rame ormai verde, s'inclinasse verso di lei, minacciando di crollare sulla sua strada. Si ricordò di quelle due settimane, dodici anni prima, quando vi entrava ogni mattina, aprendosi faticosamente un varco tra la ressa di reporter e fotografi che le gridavano: «Guarda da questa parte, Rachel. Sorridi, Rachel. Come sta andando, Rachel? Cos'hai da dire, Rachel?»
Con accanto il padre, il viso contratto, la disperazione che gli intagliava solchi profondi sulla fronte, tra le sopracciglia e ai lati della bocca, che cercava di tenere gli occhi sempre socchiusi e inespressivi. E l'ultimo giorno, stringendo Amy tra le braccia mentre tentava di trovare il modo di portarla nella Round Hall, cercando l'entrata su un lato dell'edificio, varcando le porte a vento da cui passavano gli avvocati, sentendo il grido improvviso quando uno dei fotografi la vide e urlò ai colleghi: «Eccola, è arrivata con la bambina».
Dopo che la giuria aveva emesso il verdetto, lei si era amaramente pentita di averla portata lì. Era stato egoista e stupido da parte sua. Esporre la figlia in quel modo era il genere di cosa che una madre degna di quel nome non avrebbe fatto mai. Come aveva potuto farlo? D'altra parte, il desiderio di vedere la figlia prima di essere mandata via era più che comprensibile. Qualunque madre lo avrebbe provato.
Aveva cominciato subito a dubitare di se stessa. E continuava a non essere affatto sicura della propria adeguatezza. Aveva mai posseduto un vero e proprio istinto materno? Si chiese se esistesse una cosa simile, mentre dava le spalle al fiume, voltandosi verso la grande piazza pavimentata di ciottoli, e si fermava a guardare la fila di moderni palazzi per uffici situati là dove un tempo c'era un disomogeneo e irregolare profilo di case, negozi e pub. Perché mai, tra tutti i momenti possibili, aveva scelto proprio quello per mettersi alla prova? Perché aveva chiesto di poter vedere Amy, benché la ragazza avesse manifestato il chiaro desiderio di non rivolerla nella propria vita? Attraversò lo spazio aperto e si appoggiò alle inferriate. Chiuse gli occhi e sollevò il viso verso il sole, placando per un istante il panico che stava cominciando a impadronirsi del suo corpo. Tutto ciò che desiderava era trovarsi nella stessa stanza con lei, pensò. No, si corresse, non era del tutto vero. Voleva di più. Voleva averla vicina, cingerla con le braccia, stringere a sé il suo corpo giovane ed elastico. Posare la guancia sulla morbida pelle della guancia di sua figlia. Inspirare il suo aroma tiepido. Sapone e capelli appena lavati e quell'indescrivibile profumo di bambino. Sentire il peso della testa di Amy mentre lei gliela lasciava cadere sulla spalla. Sussurrarle all'orecchio che, nonostante tutto, lei, Rachel, era ancora sua madre. Che, dopo tutto quello che era successo, lei, Amy, era ancora sua figlia. Che erano legate indissolubilmente dai nove mesi che Amy aveva trascorso nel corpo di lei. Dai cinque anni di cure e amore che avevano passato insieme. E mentre restava ferma col viso rivolto verso il sole, gli occhi chiusi, sentì le proprie labbra aprirsi in un sorriso involontario.
Aprì gli occhi e si guardò intorno, sbattendo le palpebre, abbagliata dalla forte luce, e vide l'auto che si era fermata davanti al più ampio degli edifici. Quello con le lunghe vetrine al livello della strada e la scritta sulle porte di vetro: «Ministero di giustizia. Libertà vigilata e servizi sociali». Raddrizzò la schiena. Un uomo e una donna erano seduti sui sedili anteriori. La ragazza si trovava su quello posteriore. Rachel rimase a guardare, mentre la donna lasciava il sedile del passeggero e teneva aperta la portiera dietro di sé. Vide sua figlia, capelli corti e neri, fila di orecchini sul lobo destro, jeans attillati, top che metteva in mostra la pancia abbronzata, scarpe da ginnastica con spesse suole a zeppa e una sigaretta che le penzolava dalle dita di una mano. Rimase a guardare mentre la donna le cingeva le spalle con un braccio, la stringeva forte e poi le dava un rapido bacio sulla guancia. Vide l'espressione di sua figlia. Il risentimento che le stravolgeva i lineamenti, tanto da farla sembrare imbronciata, infuriata, nient'affatto attraente.
La ragazza gettò la sigaretta sul marciapiede e la schiacciò con la punta della scarpa, prima di aprire con forza le pesanti porte di vetro e richiudersele violentemente alle spalle. La donna si voltò di nuovo verso la macchina, stringendosi nelle spalle, con un'espressione di ferita rassegnazione sul viso. Vide Rachel, la fissò per un attimo, una smorfia di disgusto che le irrigidiva la bocca in una linea sottile, poi aprì la portiera e salì in auto. Mentre i due si allontanavano piano, i pneumatici che sobbalzavano rumorosamente sui ciottoli, i loro visi la guardarono da dietro i finestrini. E poi scomparvero.
Era una stanza luminosa, quella in cui venne accompagnata. Le grandi finestre erano rivolte verso ovest e i raggi del sole pomeridiano illuminavano il pulviscolo che fluttuava sopra il lungo tavolo lucidato. Rachel, rimasta sola, si fermò appena oltre la porta e aspettò. Amy era seduta su una sedia nell'angolo. Una donna piccola e bionda era in piedi accanto a lei, con una mano posata sulla sua spalla. Sorrise a Rachel e cominciò a parlare. Si presentò. Disse di chiamarsi Alison White. Era l'assistente sociale che si occupava di Amy. Forse Rachel si ricordava di lei. Si erano già viste una o due volte, alcuni anni prima.
Rachel annuì e rispose in tono sommesso: «Due volte, ci siamo viste due volte».
La donna sorrise e abbassò lo sguardo sul taccuino che stringeva. Poi riprese a parlare. Quella, disse, non era una situazione facile. Com'era noto, Amy si era dimostrata estremamente restia a incontrare la madre dopo il suo rilascio. E Rachel non aveva certo migliorato la situazione cercando di vedere Amy in una maniera che si poteva come minimo definire avventata. Amy ne era rimasta molto turbata e si era sentita minacciata dal comportamento materno che, sottolineò la donna, era inaccettabile. Tuttavia, Rachel aveva evidentemente imparato la lezione e quella seconda volta aveva presentato la sua richiesta attraverso i canali ufficiali.
Rachel guardò verso il punto in cui sedeva la figlia. Quando Amy sentì il suo sguardo su di sé, si spostò sulla sedia, torcendo il busto in modo da girare la testa dall'altra parte. Una posizione innaturale, decisamente scomoda anche per pochi istanti, difficile da mantenere. Rachel riuscì a vedere le ossa, le protuberanze delle vertebre dietro il suo collo, che spiccavano nello spazio compreso tra l'attaccatura dei capelli e il materiale elastico del top rosa cipria.
«A mio parere», continuò la donna, «sarebbe preferibile che Amy ristabilisse una sorta di contatto con la madre naturale. Benché sia estremamente affezionata e legata alla madre affidataria e agli altri membri della sua nuova famiglia, che hanno fatto enormi sforzi per prendersi cura di lei in ogni modo possibile, il legame naturale tra madre e figlia non può essere ignorato e, in base alla mia esperienza, arriva sempre il momento in cui si riafferma.» Fece una pausa. «E, sempre in base alla mia esperienza, è preferibile che tutto ciò venga gestito in modo adeguato, che si riesca a fornire una guida a madre e figlia per aiutarle a superare questo difficile periodo di assestamento. Ora, prima di lasciarvi sole, volete che vi versi il tè?»
Al centro del tavolo troneggiava un vassoio, su cui erano posati una teiera di metallo, un bricco di latte, una zuccheriera, due tazze con piattino e un piatto di biscotti al cioccolato.
Aveva lo stesso gusto di qualunque tè preparato in un istituto. Stantio e lasciato bollire troppo a lungo, amaro e vagamente salato. Rachel bevve qualche sorso, forzando il liquido nello stomaco. Posò la tazza. Guardò Amy, seduta al lato opposto del tavolo. La ragazza aveva rifiutato sdegnosamente la bevanda offerta da Alison White. Aveva invece estratto un pacchetto di sigarette e ne aveva accesa una, nonostante il cartello con la scritta VIETATO FUMARE fissato al retro della porta. In fin dei conti, era evidente che non era la prima a fumare in quella stanza, pensò Rachel guardando il grande portacenere rotondo posato sul tavolo e che Amy aveva spostato per potervi gettare la cenere.
«Be', adesso vado. Se avete bisogno di me, mi troverete nella stanza accanto.» Alison White guardò l'orologio. «Avete a disposizione circa un'ora prima che qualcun altro debba usare questa sala. Tuttavia, se vi serve più tempo, ce ne sono altre lungo il corridoio.» Sorrise, un'espressione apprensiva che le balenò sul volto grazioso, solo per un attimo, poi uscì camminando a ritroso.
La porta si chiuse dietro di lei con un forte clac. Rachel si sedette. Si protese in avanti per prendere la teiera. Era pesante. Sentì il polso che si piegava, come se potesse cedere da un momento all'altro. Il liquido marrone sgorgò dal beccuccio metallico, versandosi sia nella tazza sia sul piattino e facendo schizzare alcune goccioline sul tavolo. Posò di nuovo la teiera sul vassoio e si tastò la tasca dei jeans, cercando un fazzolettino di carta, asciugando frettolosamente il tè rovesciato. Appallottolò il fazzolettino fradicio e si allungò verso il portacenere.
«Ti spiace?» chiese prima di lasciarcelo cadere.
Amy si strinse nelle spalle e diede un'avida boccata alla sigaretta. Rachel osservò il fumo giallastro mentre la ragazza lo soffiava fuori, le labbra che formavano una O mentre lei creava piccoli e nitidi anelli di fumo che fluttuarono lenti verso le piastrelle del soffitto.
«Niente male», disse Rachel. «Davvero niente male! Alcune delle donne con cui ero in prigione riuscivano a soffiare fuori il fumo in forme assolutamente sbalorditive. Cerchi inseriti in altri cerchi inseriti in altri cerchi. Erano delle autentiche esperte.»
«Allora?»
«Allora niente, niente di particolare. Io non ci sono mai riuscita, tutto qui. Neanche quando ero una forte fumatrice, prima di restare incinta di te, naturalmente, quando frequentavo ancora l'università. Quando fumare sembrava la cosa più in del mondo.»
Ci fu una pausa di silenzio. Rachel si protese sul tavolo per prendere il piatto di biscotti. Lo allungò verso Amy.
«Ne vuoi uno? Sono digestive al cioccolato. Da piccola ne andavi matta. Non ne avevi mai abbastanza. Dovevo sempre fingere che fossero finiti, altrimenti mi avresti fatto impazzire cercando di prenderli.»
Finiti, finiti, Amy.
Finiti, finiti, mammina. Biccotti finiti.
Amy la fissò con sguardo vacuo, poi estrasse un'altra sigaretta dal pacchetto e l'accese col mozzicone della prima.
«Mi mentivi già allora? Non mi dicevi mai la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità, con l'aiuto di Dio?»
«Mi spiace, non ho capito, puoi ripetere?» Rachel trasalì, improvvisamente assalita dal freddo, in quella tiepida stanza soleggiata.
«Ti spiace. Davvero?» Per la prima volta, Amy la guardò. Fissandola dritta negli occhi, sostenendo il suo sguardo.
«Mi spiace, certo che mi spiace. Mi dispiace tanto per tutto quello che è successo tra noi. A te e a me. A noi. E vorrei un'altra chance per cercare di rimediare.»
«Rimediare. Capisco. E come ti proponi di farlo?» Amy si appoggiò allo schienale della sedia, accavallando le gambe e posando sul tavolo la punta delle scarpe da ginnastica. Cominciò a dondolarsi avanti e indietro.
Rachel si schiarì la voce. Ripensò ai discorso che aveva provato e riprovato. A tutte le cose che aveva avuto intenzione di dire. Le spiegazioni, i moventi, le giustificazioni. Era sembrato tutto così semplice e diretto, durante le notti in cui era rimasta a letto nella sua stanza di Clarinda Park, guardando la piantina sulla parete accanto a sé. Ricordando. E la reazione di Amy era stata splendida. Lei l'aveva sentita ricambiare le sue parole colme di affetto e dolore. Di rimpianto. Di comprensione. E la sua determinazione a fare in modo che, da quel momento in poi, potessero addentrarsi insieme in una nuova vita.
«Sto aspettando.» La velocità del dondolio era aumentata. La sedia scricchiolò. La gomma delle suole delle scarpe di Amy stridette, mentre si staccavano e aderivano al legno del tavolo.
Gnic, gnic, gnic.
Le ruote di gomma della carrozzina, avanti e indietro sul lucido pavimento di legno.
Sstt, piccolina, non dire una parola,
un tordo beffeggiatore papà ti prenderà,
e se quel tordo non canterà,
un anello di diamanti papà ti comprerà.
Minuscoli strilli di neonato, gambette che scalciano e si agitano convulsamente, esili braccia che oscillano sopra le coperte avvolgenti. Dormi, Amy, tesoro. La mamma è qui con te.
«Hai qualche problema? Questa non è esattamente la lieta riunione che ti aspettavi, giusto? Pensavi che avremmo pianto e ci saremmo buttate l'una tra le braccia dell'altra? Pensavi che sarebbe stato come uno di quei film per la TV che trovi a prezzo scontato nei negozi di videocassette? Be', Rachel, signora Beckett o comunque io debba chiamarti, puoi scordartelo. Se ancora non l'hai capito, ficcatelo bene in testa adesso. Non desideravo questo incontro. Non ho niente da dirti. Non provo niente per te. E, appena possibile, me ne andrò di qui. Per sempre. Sono stata chiara?»
La voce della ragazza echeggiò in tutta la stanza. Rachel ebbe l'impressione che, da un momento all'altro, le finestre potessero cominciare a vibrare e a tintinnare, che tazze e piattini potessero infrangersi sul pavimento, che la cenere nel portacenere potesse levarsi in una sottile nube grigia sopra la loro testa. Aspettò che regnasse il silenzio. Poi si schiarì la voce, abbassò gli occhi e cominciò a parlare.
«Non mi aspetto perdono, comprensione o amore. Non voglio niente da te, Amy. Voglio solo che tu riconosca che io sono tua madre e tu sei mia figlia. Non desidero altro. È per questo che ho chiesto di poterti vedere. Questo è tutto ciò di cui ho bisogno. Nient'altro. Per me sarebbe sufficiente, me ne andrei subito da qui. E se te lo sentissi dire, non avrei nessun bisogno di infastidirti ulteriormente.»
S'interruppe e alzò gli occhi. Amy aveva ricominciato a soffiare fuori anelli di fumo. Il suo viso era contratto, gli occhi gelidi. Rachel chinò il capo e continuò.
«Accetto sino in fondo il tuo rapporto con la famiglia Williams. Non ho mai dubitato della loro integrità o del loro desiderio di proteggerti e amarti. Siamo state entrambe molto fortunate a trovarli. Quando sono finita in prigione e mi sono vista togliere il mio ruolo e la mia responsabilità di madre, avevo bisogno che subentrasse una famiglia come quella. Anche tu avevi bisogno di una famiglia. E sono molto grata ai Williams. Spero che se ne rendano conto. So che mi sono persa i dodici anni più importanti della tua vita e niente potrà mai ripagarmi di questo. Ma adesso che sei quasi adulta, che stai entrando in una nuova fase della tua esistenza, voglio semplicemente sapere se potrebbe esserci un ruolo per me, in futuro. Se c'è» - s'interruppe e sollevò di nuovo lo sguardo -, «be', se c'è, ne sarei grata e felice. Se non c'è...» Si strinse nelle spalle, fissando la superficie del tavolo ricca di venature. «Be', se non c'è, dovrei accettare anche questo. Ma voglio che tu sappia che, non importa quando o come o in quali circostanze tu possa volermi o aver bisogno di me, io ci sarò sempre per te.»
Si udì uno schianto quando Amy spinse con violenza la sedia all'indietro, facendola cadere a terra.
«Nello stesso modo in cui c'eri la sera in cui hai ucciso mio padre, è questo che stai dicendo? Oppure il giorno in cui mi hai trascinato alle Four Courts perché la mia foto comparisse su tutti i giornali, in modo che io non potessi mai liberarmene. Così ogni volta che salta fuori qualcosa sul caso o quando trasmettono una di quelle stupide cronache del decennio o qualunque altra cosa, eccomi lì, sul fottuto televisore. A soli sei anni, mentre verso tutte le mie lacrime, il muco che mi cola sul viso. Il mio orsacchiotto che mi penzola dalla mano. Credi che mi piaccia vederlo? Lo credi davvero? Credi che mi piaccia dover ricordare quel periodo? Ti stupisce che io abbia cambiato nome? Adesso sono Amy Williams. Per quanto mi riguarda, l'unico Beckett che ammetterò mai di conoscere è Samuel Beckett.»
«Ti piace, vero?» Chissà come, Rachel si ritrovò a parlare, a dire qualcosa, qualunque cosa pur d'interrompere il fiume di parole di Amy.
«Piacermi? Non me ne frega un cazzo di lui. Tutte quelle stupide parole. Bugie, ecco cosa sono la maggior parte delle parole. Come le tue. Perché non hai ammesso semplicemente di averlo ucciso? Perché non lo hai ammesso e non ti sei dichiarata colpevole? Così ci saremmo risparmiati il processo e tutto ciò che l'ha accompagnato. E allora forse, forse...» S'interruppe. Le lacrime tremolarono sulle sue palpebre inferiori, facendole brillare gli occhi. Poi lacrime e parole sgorgarono impetuose. «E poi non saresti rimasta in prigione così a lungo. Ti avrebbero rilasciato prima. E io avrei avuto una data, un momento preciso da aspettare con ansia. Avrei potuto tenere un calendario sulla parete della camera e cancellare i giorni con un pennarello rosso. Ecco cos'avrei potuto fare. Avrei saputo quando saresti tornata a casa, ecco quale sarebbe stata la differenza. Ma non ho mai saputo niente, tranne che eri una donna malvagia.»
Rachel guardò la figlia, l'improvvisa angoscia sul suo viso, un'espressione che non vedeva da anni. E quando parlò, lo fece in tono supplichevole. «Come puoi dire una cosa del genere? Non ti ho sempre spiegato che non avevo ucciso tuo padre, che non ero stata io, che non ero responsabile di quanto era successo? Non te l'ho forse ripetuto costantemente? Ogni volta che ti accompagnavano da me, ti assicuravo che ti stavo dicendo la verità. E che non potevo mentire in proposito, assecondando così i desideri di tutti gli altri. Te l'ho ripetuto talmente tante volte! E l'ho ripetuto a chiunque altro, tante volte. Non l'ho ucciso. Non sono stata io. Ma nessuno voleva credermi. Pensavo che tu potessi riuscirci. Ma non ti biasimo e non posso che sentirmi responsabile per questo. Anche adesso. Pensavo di essere riuscita a fartelo capire. Quando ti stringevo e ti abbracciavo e ti baciavo e giocavo con te, continuavo a ripetere incessantemente: 'Amy, sei mia figlia, la mia bambina, e ti amo più di qualunque altra cosa al mondo'.»
«Ma era una bugia, vero, mamma?» Il suono di quella parola sulle sue labbra fece sussultare lo stomaco di Rachel e le indebolì le ginocchia. «Non credo ai tuoi dinieghi. E non credo che tu mi amassi più di qualunque altra cosa al mondo, perché altrimenti non avresti ucciso mio padre. Quindi adesso smettila, smetti di negarlo.» Amy si era alzata. Sembrava improvvisamente adulta, molto composta. «Qualunque cosa tu dica non farà nessuna differenza. Quel che è fatto è fatto. In realtà, mi hai trasformata in un'orfana, senza nemmeno un ricordo da portare con me.»
«Non è vero.» Rachel infilò una mano nella borsetta ed estrasse un piccolo portafogli di plastica. «Non ricordi? Te ne ho dato uno identico. Con dentro tutte queste fotografie. Guarda.» E lo aprì, sfogliando le pagine di plastica, estraendo le foto, allargandole a ventaglio sul tavolo come un mazzo di carte. «Non ti ricordi?»
«Mi ricordo, certo che mi ricordo, mamma.» Di nuovo l'uso di quella parola, di nuovo il tono carico di disgusto e disprezzo. «Ma i ricordi che avevo erano contaminati da te. Tenevo sempre le foto sotto il cuscino. Auguravo loro sempre la buonanotte con un bacio, prima di dormire. Queste persone strane e bellissime. Questa donna adorabile, quest'uomo avvenente, questa bimba carina. Ma poi arrivai al punto di non riuscire neanche a guardarle, perché tutto quello che provavo era il dolore per ciò che avevi provocato. Allora sai che cosa ne ho fatto, mamma?»
Rachel la fissò, ipnotizzata. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma non ci riusciva. Doveva continuare a fissare quella ragazza che si stava trasformando in donna davanti ai suoi occhi.
«Devo continuare, devo andare avanti? Devo dirti cos'ho fatto, mamma?»
Rachel annuì, la gola serrata.
«Un giorno scendo in cucina, credo che fossero le dieci circa, salgo su uno sgabello e apro la credenza dove la mamma, mamma Williams, tiene i fiammiferi. Li tiene lì in modo che nessuno dei suoi figli possa impadronirsene, accenderli e farsi male. Ma io li trovo e li porto in camera mia, li accendo uno dopo l'altro e brucio le mie fotografie. Naturalmente, sono abbastanza grande per sapere tutto sul fuoco e i suoi pericoli. Ma quando le foto cominciano a bruciare, appiccano improvvisamente il fuoco alle lenzuola e, nel tentativo di spegnerlo, anche il mio pigiama prende fuoco. E io mi ustiono. Guarda.» Le mostrò la pelle striata di rosso e bianco dell'avambraccio. «Non ti hanno raccontato che cosa successe, vero? Che cosa ti hanno detto? Che mi ero rovesciata addosso un bollitore pieno d'acqua bollente, che mi ero avvicinata troppo al fuoco, qualcosa del genere? Qualcosa che avrebbe scaricato la colpa sui Williams. Non volevano doverti ferire ulteriormente. Ma non è stata colpa loro. Erano dei genitori decisamente troppo bravi per lasciar succedere qualcosa di tanto sconsiderato. E vuoi sapere un'altra cosa? Anch'io volevo sbiadire, annerirmi e scomparire. Proprio come le persone nelle fotografie. E, in seguito, mi dispiacque di non averlo fatto.»
Le lacrime rigavano il viso di Rachel. Piangeva in silenzio, senza cercare di asciugarle. Le gocce le caddero sulle mani e le rotolarono fino alle cosce, scurendo l'azzurro dei jeans. Sentì la porta che si apriva dietro di sé. Si sentì sfiorare dallo spostamento d'aria mentre Amy usciva dalla stanza. Sentì la porta chiudersi e continuò a piangere. Si alzò e raggiunse la finestra. Guardò la piazza sottostante e vide l'auto appena arrivata. L'uomo che scese e cinse con un braccio le spalle di Amy, mentre apriva la portiera posteriore e faceva salire e scomparire la ragazza. Rachel si scostò dai vetri. Aprì la bocca, ma non ne uscì nessun suono. Si accovacciò sul pavimento, le braccia accostate al petto, le mani serrate sulle spalle, finché lo spasmo non passò. Poi si alzò, si sfilò la maglietta dai jeans e la usò per asciugarsi il viso. Raccolse la borsa. Abbassò lo sguardo sulle fotografie ancora sparse sul tavolo. Si avvicinò alla porta, l'aprì e si diresse verso l'ascensore. Premette il pulsante con la freccia rivolta verso il basso. Ne sentì il cigolio meccanico mentre la cabina si avvicinava sempre più. Entrò. Guardò il viso della donna riflessa sulle pareti lucide. Uscì nell'atrio, raggiunse le porte di vetro e sbucò nella luminosità pomeridiana. Inspirò l'aria tiepida. Poi si voltò e si allontanò.
22
La signora delle pesche, ecco come la chiamava sua figlia. Sua moglie la chiamava in modo diverso. Aveva citato il nome Barbara Keane, quando lui le aveva chiesto chi fosse la donna di cui parlavano sempre i bambini. Ursula lo guardò, alzando gli occhi dalla scrivania di lui, il fascicolo di ritagli di giornale sparpagliato davanti sé, e dichiarò: «Non mi ero resa conto che avessi conservato tutta questa roba. Non me l'hai mai detto».
Lui si sporse verso la moglie, radunando i pezzi di carta.
«Anzi», continuò Ursula, «mi sembra di ricordare che, quando ti ho chiesto di tua cognata, tu mi abbia raccontato di aver buttato via qualunque cosa collegata a lei, a tuo fratello e al processo. Quindi, cosa cazzo sta succedendo? Improvvisamente, questa cagna è in casa mia. E io lo scopro per puro caso, mentre rovisto negli schedali, cercando i certificati di nascita dei bambini per poter ottenere i loro passaporti americani.»
Lui la consolò e la tranquillizzò, riunì i ritagli e le promise di andare alla polizia per parlare della donna.
«È malata», spiegò. «È sempre stata pazza. Probabilmente è addirittura peggiorata, dopo tutti quegli anni in prigione.»
«Ma mi hai detto che non sarebbe mai uscita di galera.» La voce di Ursula era acuta, sull'orlo dell'isterismo. «Che non l'avrebbero mai rilasciata. Quindi, che cosa vuole adesso? Che cosa vuole da me e dai miei figli?»
Lui aveva cercato di scoprire cosa fosse successo durante il week-end che la donna soprannominata la signora delle pesche aveva passato lì. Ma Ursula non voleva dirglielo.
«Niente, niente di particolare. Abbiamo semplicemente bevuto troppo. Il mattino dopo mi sentivo malissimo e lei ha portato i bambini a fare un giro in macchina, in modo che potessi dormire.»
Daniel aveva chiesto chiarimenti ai figli.
«Ci siamo divertiti», aveva detto Jonathan. «Siamo andati alla sala giochi. Ci ha portati sull'autoscontro. Abbiamo mangiato il popcorn.»
«E lo zucchero filato», l'aveva interrotto Laura, «e un sacco di Coca-Cola. È stato bellissimo.»
Lui controllò la casa per scoprire se mancava qualcosa. Sembrava tutto normale. Niente era fuori posto. Era come se lei non fosse mai stata lì.
«Non preoccuparti. È tutto a posto. Ci penso io.»
Notò l'improvvisa incertezza e l'angoscia sul viso di Ursula. Si chiese come Rachel ci fosse riuscita cosi bene. Come fosse riuscita ad aprire una falla nella loro sicurezza, nella loro certezza di occupare il proprio legittimo posto nel mondo.
Si sarebbe occupato di lei, se necessario. Di notte, osservò la finestra di Rachel dall'auto parcheggiata sul marciapiede dietro la casa, guardando su, verso quel brillante rettangolo di luce. La osservò mentre andava al lavoro e tornava a casa. Osservò come la sua schiena si fosse raddrizzata, il passo allungato, come il suo viso e il suo corpo si fossero arrotondati e rimpolpati. Vide il sorriso sul suo volto quando salutava i vicini, si fermava ad accarezzare il gatto sdraiato sui gradini davanti alla casa accanto, si chinava a raccogliere un rametto di lavanda e lo teneva accostato alle narici, mentre cercava le chiavi nella borsa.
Ripensò alla polizia. A come non fosse mai stato incriminato per l'omicidio del fratello. A come gli agenti avessero creduto alla sua storia e all'alibi fornitogli dalla madre. Creduto all'affermazione della donna di aver sentito la pendola sul pianerottolo accanto alla sua camera che batteva le ore. Sua madre non sapeva che lui aveva aperto lo sportello di vetro e spostato indietro le lancette, prima di richiuderlo. Era rimasto seduto accanto a lei e le aveva fatto vedere le sue videocassette preferite finché non si era addormentata, poi aveva rimesso a posto le lancette. Così facile, così semplice. L'ultima cosa al mondo che desiderava era che un giovane sbirro impiccione rispolverasse il caso, lo esaminasse, studiasse le prove, individuasse delle falle là dove prima non ce n'erano. L'ultima cosa al mondo che desiderava.
Così l'aveva osservata e aveva aspettato. E nel frattempo aveva continuato a frequentare il caffè del porto dove lavorava la ragazza. Erano diventati amici. Lei lo trovava simpatico. Gli aveva rivelato il proprio nome.
«Amy Williams», aveva detto, con una scrollata di spalle e una smorfia di disgusto.
«Amy, un nome davvero carino.» Lui si era appoggiato allo schienale della sedia, guardandola dal basso.
«Già, troppo carino, troppo dolce, troppo grazioso.» Lei aveva sollevato la tazza e il piattino di Daniel per togliere le briciole lasciate dalla sua brioche.
«No, è delicato e originale. Come te», aveva ribattuto lui, notando il rossore sulle sue guance e il sorriso che l'aveva seguito.
In quel momento, era riuscito a distinguere la sua somiglianza con la madre. Nel modo in cui abbassava gli occhi mentre parlava, lo sguardo che si posava su di lui ancora per un attimo, prima di spostarsi altrove.
Pazienza, ecco cosa ci voleva. Doveva aspettare il momento adatto. Martin era stato bravo, in questo. Daniel non avrebbe potuto fare niente di meglio che seguire l'esempio del fratello minore. Martin glielo aveva ripetuto abbastanza spesso: «Non gettarti a capofitto nelle situazioni, non prendere decisioni affrettate, aspetta il momento opportuno. Alla fine scoprirai che n'è valsa la pena. Succede sempre così».
Martin aveva avuto ragione nella maggior parte dei casi, pensò. Eccettuata quell'ultima volta. Ma in quell'occasione lui avrebbe seguito il suo consiglio. Avrebbe aspettato. Avrebbe aspettato il momento opportuno. Avrebbe tenuto duro.
23
La telefonata svegliò Jack da un sonno profondo e senza sogni. La miglior dormita che facesse da mesi, se non da anni. Cos'è che dicevano sempre i ragazzi a scuola? Esistono due tipi di sonno profondo: il sonno del giusto e il sonno del giusto un attimo dopo. Il suo apparteneva decisamente alla seconda categoria. Rotolò di lato, scostandosi la testa di Alison dalla spalla, e allungò una mano verso il telefono, sentendone lo squillo trillante. Eine Kleine Nacht Musik suonato a velocità doppia. Era Ruth a farlo. Giocherellava continuamente col suo cellulare, modificandone le impostazioni. Come la maggior parte dei bambini di dieci anni, sui telefonini ne sapeva più di chiunque altro nell'universo.
Lui era sicuro di aver deciso di lasciarlo in un posto facile da trovare. Contrariamente al resto dei suoi effetti personali, disseminati in maniera poco elegante sul pavimento della camera. La sua quarta notte di seguito a casa di Alison. Il week-end passato a fare giochi di destrezza con figlie e doveri paterni, ma riuscendo comunque a ritrovarsi, alla fine, nel cigolante letto d'ottone della donna.
Le dita di lui si serrarono sull'involucro di plastica. Guardò il display. Erano le nove e cinque. Il numero era quello di Sweeney. Merda, pensò, sono mostruosamente in ritardo. E poi si rese conto: no, non si tratta di questo. Mi sono preso un giorno libero, il mio primo giorno libero da diverse settimane. Quindi di che si tratta? Sicuramente di un'emergenza.
Il cadavere penzolava ancora là dov'era stato trovato, appeso alla ringhiera sopra l'ingresso, descrivendo una lenta e solenne piroetta, mentre la corda intorno al suo collo si torceva per poi tornare nella posizione di partenza. Lo aveva scoperto la governante. Era entrata in casa come al solito, usando le proprie chiavi, subito dopo le otto e mezzo. Aveva fissato il tappeto nell'ingresso pensando che cominciava davvero a logorarsi lungo i bordi, aveva raccontato. Proponendosi di parlarne al dottor Hill. Ben presto avrebbe rappresentato un pericolo perché sarebbe stato facilissimo inciamparvi, quindi sarebbe risultato davvero inadeguato lì nell'ingresso, con tutta la gente che entrava e usciva ogni giorno. Perciò non se n'era accorta subito. Solo quando si era ritrovata sotto il corpo, l'aveva visto. Aveva visto i piedi dondolarle proprio sopra la testa. I suoi poveri piedi, continuava a ripetere. Non li aveva mai visti nudi, prima. Lui era sempre così meticoloso in tutto, si teneva sempre perfettamente in ordine. Ha bellissime mani, dichiarò, vere e proprie mani da guaritore. Ma i suoi piedi, che disastro! Le unghie lunghe, calli sui talloni e un durone sul dito medio. Jack incrociò lo sguardo di Sweeney al di sopra della testa della donna. Fece l'occhiolino e si sentì subito malissimo. Sweeney stava cercando di non ridere.
«Allora, cara, cos'altro ha visto?»
«Nient'altro», rispose lei. «Ho preso un tale spavento che sono rimasta lì impalata a guardare quel poveretto e poi ho chiamato un'ambulanza. Quando ho spiegato ciò che aveva fatto il dottor Hill, mi hanno detto che avrebbero informato la polizia. Immediatamente.»
Il medico si era impiccato alla balaustra del primo piano. Jack esaminò la corda. Era una corda da bucato. Sbiadita, arancione, identica a quella usata per strangolare sua figlia. Aveva lasciato un biglietto, infilato nel taschino della camicia. Un'unica pagina, strappata da quello che sembrava un ricettario: il suo nome, indirizzo, numero di telefono e gli orari di ambulatorio erano stampati in cima. Sotto, scritti con una calligrafia minuta e quasi illeggibile, c'erano la data e il messaggio.
Non ho ucciso mia figlia Judith, né le ho mai fatto alcun male. Non so chi sia stato. Ma non posso sopportare il pensiero di ulteriore vergogna e altre umiliazioni. So che sarò accusato del suo omicidio, che verrò processato e giudicato colpevole. Non potrei mai andare in prigione. Questa è la soluzione migliore per tutti.
Non era firmato. Jack rimase a guardare mentre Johnny Harris sovrintendeva alla rimozione del corpo dalla sua posizione sospesa. Si appoggiò alla parete rivestita di pannelli dell'ingresso. Nonostante tutto, si sentiva in splendida forma. Riusciva a stento a reprimere un sorriso. Guardò l'orologio. Erano le dieci e mezzo. Alison avrebbe fatto visite a domicilio per tutto il giorno. Aveva promesso di chiamarla. Forse sarebbero riusciti a pranzare insieme. In ogni caso, sarebbe andata da lui per la cena e il resto. Jack chiuse gli occhi. Riusciva ancora a sentire il suo seno che gli premeva contro il petto, le sue gambe che gli cingevano i fianchi. Sentiva ancora il profumo della sua pelle e il gusto della sua bocca.
«Ehi, capo, sveglia.» Sweeney gli diede una gomitata nelle costole. «C'è qualcuno alla porta che vuole vedere 'il responsabile'. Presumo sia tu, o sbaglio?»
La riconobbe immediatamente. La donna di mezza età con l'acconciatura elegante e la figura appesantita. Era in attesa lì fuori, sul vialetto d'accesso.
«Mi stavo chiedendo che cos'è successo, qual è la ragione di tutto questo.» Indicò con un gesto l'ambulanza e le tre auto della polizia parcheggiate sotto i platani. «C'è qualche problema? La mia non è semplice curiosità. Mark Hill è un mio carissimo amico.»
Quando glielo spiegò, Jack temette che la donna stesse per svenire. Il suo viso avvampò, poi perse colore. Lei vacillò e lui allungò una mano per sostenerla.
«Venga, l'accompagno a casa.»
Jennifer Bradley, ecco come si chiamava. Lui ricordava qual era la sua casa: quella accanto, sulla sinistra. E si ricordava dei fiori che Judith le aveva regalato per il compleanno.
«Vuole che entri con lei o pensa di farcela?»
La donna annuì, sforzandosi di controllare la propria voce. «Grazie, ma c'è mio marito. Rimarrà scioccato quanto me. Conosciamo gli Hill da anni. Ci siamo trasferiti qui nello stesso periodo.»
«Era amica di Elizabeth Hill?» Jack cercò di mantenere il suo tono il più neutro possibile.
La donna lo guardò e sorrise freddamente. «Sì. Sono sicura che conosce tutti i dettagli.»
«Nient'affatto», rispose. «Solo i fatti importanti. Sono curioso, se non le dispiace. Lei e suo marito avete risolto ogni problema. Lei è rimasta con lui. Ed era in buoni rapporti anche col dottor Hill, giusto?»
«Sì.» Il tono della donna era addirittura più gelido. «Ho commesso un errore. Mi sono resa conto di aver permesso a una certa...» - fece una pausa -, «a una certa emozione di assumere il controllo della mia vita. Ma poi ho capito che non aveva futuro. Il mio futuro era qui, insieme colla mia famiglia.»
«Ma Elizabeth non la pensava così?»
«Elizabeth Hill è sempre stata una ribelle. Era una delle caratteristiche che la rendevano attraente. Ma io non lo ero. Mark sapeva benissimo quale fosse la differenza tra noi due e non mi serbò rancore. Ho fatto tutto il possibile per aiutarlo con i bambini. Judith e Stephen entravano e uscivano continuamente da casa mia. Venivano da me e mio marito quando Mark era impegnato. Judith faceva da baby-sitter alle mie figlie, più giovani di lei. Era quasi come una sorella maggiore per loro. Le volevamo tutti un gran bene. Siamo rimasti sconvolti e impoveriti dalla sua perdita. E adesso questo... È talmente ingiusto.» Cominciò a piangere, il viso che si raggrinziva. Estrasse le chiavi e aprì la porta d'ingresso.
«Mi dispiace.» Jack le tese la mano. «Non volevo aggravare il suo dolore, ma a volte certe domande devono essere fatte.»
Qualcuno avrebbe dovuto avvisare Elizabeth. Jack immaginò che toccasse a lui. La sua sensazione di benessere scomparve. Meglio togliersi il pensiero. Tornò lentamente verso la casa degli Hill. Lo avrebbe fatto in strada, dove c'era silenzio. Estrasse il cellulare e il taccuino. Trovò il numero di Elizabeth. Cominciò a digitarlo. E, all'improvviso, sentì un colpo alla schiena, seguito da un altro e un altro. Si voltò. Stephen Hill si trovava dietro di lui, un'espressione furibonda sul minuto viso pallido.
«Bastardo, fottuto bastardo. Guarda cos'hai fatto alla mia famiglia. L'hai distrutta. Hai distrutto mio padre.» Ricominciò a tempestarlo di colpi, i pugni che si abbattevano su stomaco, plesso solare, basso ventre. Dalla bocca di Jack proruppe una risata nervosa, mentre alzava i pugni per difendersi. Provò un dolore atroce quando Stephen sollevò un piede e gli sferrò un calcio violento e preciso nei testicoli. Si piegò in due, boccheggiando, il dolore straziante che gli si propagava nel corpo, il vomito che gli colmava la bocca. Udì, più che vederlo, Sweeney che gli staccava di dosso il ragazzo, spingendolo dentro casa, mentre lui si afflosciava contro la cancellata, in attesa che il dolore cessasse.
Passò parecchio tempo prima che riuscisse a fare la telefonata. Aspettò che Johnny Harris lo contattasse, confermandogli che la morte del dottor Hill era stata un suicidio.
«C'è un dettaglio che mi stupisce», gli disse il patologo. «Hill aveva accesso a qualunque tipo di droga. Mi è bastata una rapida occhiata al suo ambulatorio per scoprire che aveva un sacco di morfina, sufficiente per morire in modo indolore. Eppure ha scelto l'asfissia. Ed è una morte dolorosa, su questo non ci sono dubbi. Ma, in fin dei conti, esiste uno schema piuttosto preciso. Le donne ingoiano le pillole, gli uomini scelgono una forma di suicidio più attiva, aggressiva.»
«So perché mi sta chiamando.» La voce di Elizabeth suonò ovattata, distante. «Stephen mi ha già telefonato. È sconvolto. Verrò a Dublino stasera. Mi occuperò del funerale. Stephen mi ha raccontato di averla aggredita. Adesso gli dispiace. Sa che non è stata colpa sua.»
Ma era vero? Jack si sedette sul balcone con Alison al suo fianco, osservando il cielo che si oscurava sopra il porto. C'erano alcune barche ormeggiate lungo il muraglione del porto, visitatori provenienti da Inghilterra, Germania, Francia. Riuscivano a distinguere le loro lanterne e i fanali di via che brillavano e a sentire il loro chiacchierio e la musica delle loro radio. Alison gli prese la mano e la baciò.
«Non è colpa tua, Jack», lo rassicurò. «Hai fatto solo il tuo lavoro. Nessuno può sapere perché si è ucciso. Tantissimi suicidi non sono frutto dell'impulso del momento. Parecchi sono stati progettati, in modo più o meno consapevole, per anni. Lui non aveva pianto adeguatamente la figlia, vero?»
«Come poteva farlo, se l'aveva uccisa? Come avrebbe potuto piangerla?»
«Ma è proprio questo il dilemma.» Lei versò altro vino nei due bicchieri. «Prova soltanto a immaginare il fardello di dolore e senso di colpa che quell'uomo stava portando. L'ho notato in Rachel Beckett, ieri, quando è venuta all'incontro con Amy. Si nota chiaramente quale effetto abbia avuto su quella donna. È doloroso guardarla. Non si riesce nemmeno a pensarci.»
Ma lui non riusciva a smettere di pensarci. E quella notte, mentre era sdraiato con la testa di Alison posata sul petto, ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva il viso di Mark Hill. La lingua che sporgeva dalla bocca, le guance gonfie e violacee, i piedi nudi, bianchi e molli, tracce di borotalco ancora tra le dita.
Dolore e senso di colpa. Li provava entrambi. E non aveva modo di lasciarsi alle spalle nessuno dei due. Né ora, né mai.
24
Rachel aveva osservato il gatto del vicino per tutto il pomeriggio. All'inizio, la sua attenzione era stata attirata dal suo improvviso sfrecciare sulla terrazza lastricata, in direzione del piccolo stagno ovale, poi lo scatto e il balzo su per il vecchio melo solitario, che persino allora, in piena estate, non aveva ancora tutte le foglie.
Aveva guardato la coda nera oscillare da una parte all'altra, mentre il gatto restava accovacciato accanto al giardino roccioso, stringendo qualcosa di piccolo e scuro tra le zampe anteriori. Aveva notato che il felino indietreggiava solo per un attimo, come se fosse stato distratto, e poi, quando la preda piccola e scura cercava di spostarsi, si muoveva anche lui, nuovamente vigile, attento, le lucide orecchie nere ben dritte.
Aveva aperto la finestra a ghigliottina spingendo il pannello il più in alto possibile e si era sporta al limite, cercando di scoprire cosa divertisse tanto l'animale. Riuscì a sentire, al di sopra del rumore del traffico, i miagolii e i bassi mugolii che gli uscivano di bocca mentre girava intorno alla preda. E poi lei, ormai incapace di sopportare oltre la tensione, aveva sceso di corsa le tre rampe di scale fino alla porta che dava sul cortile, ingombro di cataste di legna e di mobili rotti. Ciarpame che il suo padrone di casa aveva scartato, ma che formava un'utile scala, tanto che Rachel riuscì a issarsi al di sopra del muro per ammirare l'ordinata bellezza del giardinetto del vicino. Il quadrato lastricato di cemento, lo stagno con le ninfee e i pesci, il prato circondato su tre lati da una stretta aiuola piena di girasoli e ortaggi. E, separato dal resto, il melo, il tronco che si biforcava come due dita tenute verticali. In quel momento, il gatto era seduto tra i rami e socchiudeva gli occhi gialli per ripararli dalla brillante luce del sole. Ai piedi dell'albero, con le zampe divaricate sull'erba tagliata corta, giaceva una rana.
La osservò. Sembrava morta. Rachel s'issò in cima al muro e poi si lasciò cadere sul terreno, circa un metro più giù. Il gatto si voltò verso di lei e ritrasse la testa nella nera gorgiera di pelo intorno al collo massiccio. Lei guardò verso la casa, ma non si scorgeva nessuna traccia di attività dietro le finestre scintillanti. Attraversò tranquillamente il prato, fino a raggiungere il melo. Si accovacciò per esaminare la rana. Era lunga una decina di centimetri. Le sue zampe, screziate di verde e marrone, erano divaricate. Sembravano quasi umane, pensò Rachel. Eleganti. Il principino che indossa la calzamaglia decorata da nastri incrociati. Raccolse un rametto e pungolò con delicatezza il dorso dell'anfibio, che non si mosse. Premette più energicamente, ma il corpo non diede segno di percepire la pressione. Sentì, sopra la testa, un fruscio e il grattare degli artigli sulla corteccia, mentre il gatto cominciava a scivolare lungo il tronco, verso di lei. Infilò una mano nella tasca dei jeans ed estrasse un fascio di fazzoletti di carta. Raccolse la rana, stringendola con cautela, e si diresse, quasi correndo, verso il piccolo stagno. Mentre si chinava sull'acqua, la rana si dimenò all'improvviso e schizzò via con un salto, le zampe già impegnate in movimenti natatori, mentre scompariva con un tenue, armonioso splash. Giù, giù, sotto le radici delle ninfee, nel buio. Rachel alzò gli occhi verso il gatto, che l'aveva seguita. Lui fissò intensamente la fanghiglia, poi si accovacciò di nuovo, la coda che oscillava da una parte all'altra e un mugolio carico di delusione che gli usciva dalla gola.
«Vattene», sibilò lei, dandogli un colpetto nelle costole col piede nudo. Il felino raggiunse rapidamente il lato opposto della terrazza. Ma, mentre scavalcava il muro, Rachel lo vide avanzare lentamente e con aria decisa verso lo stagno. Non appena tornò nella sua stanza in cima alla casa, si accorse che, ancora una volta, l'animale stringeva qualcosa tra le zampe anteriori mentre rimaneva accovacciato accanto al giardino roccioso.
Fu costretta ad ammirare la perseveranza del grosso gatto nero che viveva dall'altra parte del muro. Oppure non era perseveranza? Forse no, trattandosi di un animale. Doveva essere l'istinto, pensò, qualcosa da cui lui non poteva sfuggire. Ripensò agli altri gatti che aveva conosciuto. Che si erano dimostrati più che felici di restare sdraiati in un punto tiepido per la maggior parte della giornata, facendo le fusa, pulendosi e mettendosi supini per farsi strofinare e palpare la pancia morbida. Erano splendide creature. A proprio agio nel loro corpo e sicure del proprio posto nel mondo.
Proprio come le persone che vide alla festa di anniversario di Ursula e Daniel Beckett, mentre indugiava sotto i pini ai margini del giardino, osservando i gruppetti di due o tre ospiti, col bicchiere in mano, che si muovevano dietro le finestre panoramiche. Dalla porta aperta sentì arrivare il brusio e il chiacchierio delle loro voci, che sovrastavano la musica suonata dall'orchestrina, seduta su una piccola piattaforma collocata nel prato. Osservò Ursula aggirarsi tra gli invitati. Intuiva il genere di parole che stava pronunciando. Parole di benvenuto, incoraggianti, confidenziali, lusinghiere. Guardò i bambini, vestiti con estrema eleganza, che correvano dentro e fuori casa, andando a prendere e trasportando vettovaglie. Si ritrasse per un attimo fra gli alberi e si voltò a guardare il mare. C'era ancora molta luce. L'acqua, sotto le scogliere, scintillava al sole del tardo pomeriggio. Verde scuro vicino alla costa, blu intenso poco più in là, una striscia di luminosità lungo l'orizzonte. Le prime propaggini del tramonto conferivano alle nubi tenui sfumature rosa chiaro e grigio. Estrasse un portacipria dalla borsetta e lo aprì. Si guardò, spostando lo specchietto di lineamento in lineamento, con aria critica. Si lisciò le sopracciglia col polpastrello e prese il pettine per sistemarsi i capelli. Fece un bel respiro. Sollevò la testa e fissò le finestre illuminate. Il momento era arrivato. Era pronta.
Fu facile scivolare all'interno attraverso la porta spalancata. Nessuno si accorse di lei. Nessuno la stava guardando. Tranne il cameriere in giacca bianca, che individuò subito l'ospite senza bicchiere e allungò il vassoio nella sua direzione.
«Gradisce qualcosa da bere, signora? Vino, acqua minerale o magari champagne?»
Rachel esitò, la mano sospesa nell'aria, osservando i colori. Il rosso scuro, il giallo chiaro, l'effervescenza di un pallido giallo limone. Accettò un bicchiere di vino bianco. Lo tenne accostato alle narici e ne annusò l'essenza prima di bere, mentre il suo sguardo esaminava la stanza, cercando l'uomo con i folti capelli scuri e la barba altrettanto scura di cui ricordava benissimo il viso. Di cui aveva visto le fotografie negli articoli che lui aveva ritagliato dalle pagine delle riviste patinate. Cominciò ad avanzare, aprendosi un varco tra la ressa, captando stralci di conversazione mentre passava.
Riuscì a distinguere la testa bionda di Ursula e a sentirne la voce, il suo accento che si levava al di sopra del brusio nella stanza. Si avvicinò lentamente alle porte che si aprivano sul giardino. Si sedette a un tavolo sulla terrazza e guardò verso il mare, osservando la fascia di nubi lungo l'orizzonte.
Finì il bicchiere di vino e fece cenno al cameriere di portargliene un altro. Bevve ancora un po'. L'alcol stava modificando il suo contegno. Si sentiva allegra e viva, sicura di sé, capace di qualsiasi impresa. Si alzò e si allontanò dalla casa, dirigendosi verso il tendone che era stato montato sul prato. Era ancora deserto. Alcuni musicisti stavano sistemando la loro attrezzatura in un angolo. Sentì l'odore di tela umida ed erba schiacciata. Le ricordò le vacanze che faceva da ragazzina. Campeggio a Wexford. La pioggia sul tetto della tenda e il profumo del fornelletto da campo. Raggiunse il centro del pavimento di legno e si appoggiò al palo.
L'orchestrina aveva cominciato ad accordare gli strumenti. Chitarre, un mandolino, un violino e un'enorme concertina. Rachel li guardò, posò la schiena contro il supporto di legno e chiuse gli occhi. Cominciarono a suonare. La musica somigliava a melodie zigane. Ritmata, romantica, nostalgica. Lei oscillò da parte a parte, canticchiando a tempo con i suoni familiari, finché non si sentì tirare la gonna. Aprì gli occhi e guardò in basso. Laura era ferma accanto a lei. Rachel si chinò per darle un bacio sulla guancia, lasciando indugiare le labbra sul viso della bambina.
«Vuoi ballare con me, tesoro?» chiese. La bambina annuì e le tese le mani. Rachel le strinse, poi entrambe iniziarono a piroettare sulla pista da ballo. L'orchestrina cominciò a suonare più rapidamente. Loro continuavano a piroettare. Laura stava ridendo. Si protendeva all'indietro per resistere alla stretta di Rachel, la quale sentì che le vertigini stavano per farle perdere l'equilibrio. Rallentò e prese in braccio la bambina, stringendosela contro l'anca mentre si muoveva a tempo di walzer, i piedi che scivolavano sul pavimento di legno sotto l'enorme tendone. Laura stava ridendo a squarciagola, sporgendosi verso l'esterno per bilanciare i movimenti di Rachel, mentre volteggiavano e volteggiavano e volteggiavano.
Si fermarono quando improvvisamente, accanto a loro, comparve Ursula, strappando la figlia dalle braccia di Rachel, inveendole contro, chiedendole in tono astioso che cosa pensava di fare, perché si trovava lì, come osava violare la loro privacy in quel modo.
Rachel si scostò i capelli dal viso. Era senza fiato. Inspirò affannosamente, poi prese il suo bicchiere di vino e bevve qualche sorso.
«Ma mi hai invitata tu», rispose. «Il giorno in cui siamo andate nel vivaio, mi hai chiesto di venire alla festa. E me l'hai ripetuto la sera in cui sono rimasta qui con te. Mi hai invitata. Non ricordi?»
Osservò il mutamento d'espressione di Ursula. Il dubbio rimpiazzò la rabbia.
Rachel le si avvicinò. «Sì, mi hai spiegato quanto ti sarebbe piaciuto avermi qui e potermi presentare tutti i tuoi amici, quanto desideravi che conoscessi anche tuo marito. Te ne ricordi, vero?»
L'orchestrina aveva smesso di suonare. La gente aveva cominciato a infilarsi nel tendone per capire cosa stesse succedendo e aveva formato un semicerchio curioso intorno alle due donne.
«Sì», continuò Rachel, «mi hai detto che ci sarebbe stata della musica e che avremmo potuto ballare insieme, come abbiamo fatto quella sera, Ursula. Non ricordi? Ti sei talmente divertita ballando, quella sera, che hai detto che lo avremmo rifatto. Perché non lo facciamo, perché non lo facciamo adesso? Sono sicura che a tutti i presenti piacerebbe vedere come abbiamo ballato quella sera.»
Allungò una mano e strinse quella di Ursula. E poi lo vide, fermo a una certa distanza dal resto degli ospiti. Quelle persone vivaci, scintillanti, con i loro gesti stravaganti e i loro movimenti sicuri. I loro gioielli, il loro make-up, le loro superfici sfavillanti. Svanirono di colpo, quando lei vide Daniel che la guardava. E lo guardò a sua volta. Notò i fili grigi nei capelli scuri, la carne in eccesso sul corpo e sul viso. Ricordò come lo aveva creato, evocato dagli abissi della propria memoria, mentre restava sdraiata nella sua cella, notte dopo notte. Ripensando al suo aspetto fisico, a ciò che aveva provato toccandolo. Mentre, in quel momento, le sue gambe cedevano e la sua bocca s'inaridiva, tanto che lei dubitò di poter parlare. Per un attimo regnò il silenzio. Poi Laura cominciò a correre verso di lui. Gli abbracciò le ginocchia, gli fece scivolare le mani sulle cosce, tirandogli la cintura.
«Papà, papà, tirami su, prendimi in braccio.»
Lui si chinò e infilò le mani sotto le ascelle della figlia. La sollevò facendole descrivere un ampio arco e se la posò sulla spalla. Laura scoppiò a ridere e gridò: «Guarda, signora delle pesche, guarda. Sono il re del castello».
Daniel si avvicinò piano a lei. Le tese la mano destra. «Rachel, sei proprio tu. Dopo tutti questi anni!»
A quel punto lei sentì le voci, i commenti, il brusio di riconoscimento.
«È un vero piacere rivederti. Sono felice che tu ti sia divertita qui. Che abbia apprezzato la nostra ospitalità.» Sollevò Laura dalla propria spalla e la posò cautamente a terra. Si fece avanti e ghermì il polso di Rachel. Una stretta energica, sgradevole. «Adesso, però, è tempo che tu te ne vada.»
La tirò per un braccio e lei incespicò. Il vino rimasto nel bicchiere le schizzò sul vestito, macchiandolo. Lui la tirò ancora e Rachel inciampò di nuovo. La folla si fece da parte. Lei riuscì a vedere fuori, grazie al lembo aperto del tendone. Due uomini erano fermi lì vicino, in attesa. Indossavano divise blu, camicie con un logo bianco. Daniel rivolse loro un cenno d'assenso e i due avanzarono, rapidi. La lasciò andare. Gli uomini le si piazzarono accanto, sui due lati. Sincronizzando il passo, uscirono dal tendone, attraversarono il prato, girarono intorno alla casa e percorsero il vialetto fino al cancello. I loro passi risuonavano sulla ghiaia. Quando raggiunsero la strada, Rachel sentì l'orchestrina che ricominciava a suonare. Un motivo ballabile, un altro walzer. Sentì le chitarre, il mandolino, il violino, la fisarmonica esagonale che suonavano insieme. Cominciò a canticchiare sommessamente. Le guardie aprirono il cancello. Si scostarono.
«Fuori, dolcezza», disse il più giovane. Le diede una spinta sulle reni. Lei cadde in avanti, allungando le braccia per proteggersi. La parte carnosa delle mani e le ginocchia piombarono sulla dura superficie stradale. Sentì le punture dei sassolini pizzicarle la pelle. Le si colmarono gli occhi di lacrime. Sentì il rumore delle scarpe mentre i due uomini si voltavano e si allontanavano. Poi il forte suono metallico del chiavistello di ferro che veniva chiuso. Aspettò per un paio di secondi, finché non tornò il silenzio, poi si alzò. Si voltò e cominciò a risalire la collina, verso il villaggio. Il buio gravava su di lei, avviluppandola nel suo conforto e nella sua sicurezza. Si fermò per un istante e piegò la testa all'indietro per guardare il cielo. La mezza luna era sospesa sopra di lei, così com'era rimasta sospesa sopra la prigione. E, quando Rachel si muoveva, la luna si muoveva con lei, seguendo il suo stesso tragitto, fermandosi quando lei si fermava, fluttuando nella notte quando lei ricominciava a camminare.
Era talmente grande, la casa in cui vivevano Daniel e la sua famiglia. Piena di nicchie e angolini nascosti. Era impressa nitidamente nella sua memoria. Ripensò al sistema d'allarme, al numero che aveva segnato sul suo taccuino, alle serrature di porte e finestre. Ripensò al mazzo di chiavi che aveva riposto accuratamente nella sua credenza. Quella notte, lui avrebbe vagato per la casa controllando ogni cosa prima di andare a dormire, ne era sicura. E sarebbe riuscito a dormire? Forse no, oppure, se ci riusciva, sarebbe stato svegliato dai sogni. Rachel, invece, avrebbe dormito saporitamente, meglio di quanto non facesse da tempo. Da anni, a ben pensarci. Avrebbe dormito come una bambina. Una bambina che finalmente sia stata nutrita, saziata e coccolata. Era impaziente. Non vedeva l'ora.
25
Furono i violenti colpi sulla porta a svegliarla, il mattino dopo. Insistenti, rumorosi, capaci d'insinuarsi nella trama e nell'ordito dei suoi sogni, anche se lei si mise prona e si coprì la testa col cuscino, tappandosi le orecchie con le mani.
Fu tutto inutile. Ormai era sveglia. Per un attimo rimase supina, guardando i raggi del sole che strisciavano sul soffitto, cercando di ricordare dove si trovava. Si mise seduta, un improvviso terrore che la fece sudare e la costrinse a interrogarsi, a chiedersi se si trovava di nuovo dietro le sbarre. Era da lì che arrivava il rumore? Le secondine che attraversavano il pianerottolo per raggiungere la sua cella? Le chiavi in mano, lo stridore, il tintinnio, il suono metallico della serratura, poi il tonfo, il grido: sveglia, sveglia, alzatevi, ora di colazione, signore. Ma quella che stava gridando il suo nome era una voce maschile. Una voce che lei conosceva da molto tempo, da ancor prima della prigione.
Avrebbe voluto avere il tempo di spazzolarsi i capelli, lavarsi la faccia, ma il rumore era tanto forte che i suoi vicini del piano di sotto si erano uniti al frastuono, picchiando sul soffitto tanto da far tremare le assi del pavimento. Spingendola ad alzarsi e a correre verso la porta e aprirla. A scostarsi per lasciarlo entrare. Ad affrontare la sua collera. A rispondere alle sue domande.
«Che cosa vuoi? Che diavolo hai intenzione di fare? Chi ti credi di essere? Ingannare mia moglie e i bambini con quella storia assurda! La moglie abbandonata, i due figli, tutte quelle stronzate. Dimmelo. Perché sei qui? Adesso, dopo tutti questi anni. Perché adesso?»
«Potrei farti la stessa domanda. Perché sei qui, adesso, dopo tutti questi anni?» Si cinse il petto con le braccia, improvvisamente infreddolita. «Dovresti ringraziarmi per non aver raccontato tutto di noi due a tua moglie, quando ho capito chi era. Per non aver spiattellato ogni cosa. Tutta la disgustosa storia. Per averla tenuta per me. Per essere stata abbastanza ingegnosa da inventarmi qualcos'altro che non avrebbe destato i suoi sospetti.»
«Quindi mi stai dicendo che il fatto che tu l'abbia conosciuta è una semplice coincidenza, è questo che vuoi dire? Be', non ti credo, non ti credo affatto. Ti conosco, Rachel, ricordatelo. Ti conosco benissimo.» La sua voce si alzò in un grido di rabbia mentre le si avvicinava, le mani strette a pugno.
Nel frattempo, la porta dietro di lui si aprì e Rachel vide il ragazzo del piano di sotto fermo sulla soglia, i capelli biondi ritti sulla testa come quelli di un bambino, gli occhi ancora gonfi di sonno.
«Che cazzo sta succedendo qui?» Entrò nella stanza, guardandoli. Poi, in tono premuroso, preoccupato, chiese: «Stai bene, Rachel? È tutto a posto?»
Lei lanciò un'occhiata verso Daniel. «No. Butta questo stronzo fuori di qui. Subito.»
La sua voce suonò aspra, l'accento e il tono improvvisamente non suoi, mentre si avvicinava a Daniel e gli dava un'energica spinta sul petto, tanto che lui perse l'equilibrio e cadde all'indietro, mentre anche il ragazzo del piano di sotto si trasformava diventando minaccioso, l'esile corpo fasciato dalla felpa e dai pantaloni da jogging che si faceva sodo e rigido. Lei sbatté la porta alle spalle di Daniel, poi ascoltarono il suono dei suoi passi sulle scale e il tonfo cupo quando la pesante porta d'ingresso si richiuse.
Quella sera, quando finì di lavorare, trovò Daniel ad aspettarla. La sua monovolume era parcheggiata davanti allo shopping centre e lui vi stava appoggiato, sfogliando un giornale. Rachel lo vide un attimo prima che lui vedesse lei. Stava per fare dietrofront, ma Daniel le fu subito accanto, posandole una mano sul braccio.
«Non andartene», disse. «Voglio parlarti.»
«Davvero? Di che diavolo dobbiamo parlare?»
«Senti, mi dispiace per quanto è successo stamattina. Non volevo spaventarti. Ti prego, lascia che ti offra un drink. Hai l'aria di averne bisogno.»
Le sorrise e lei vide Amy nel suo volto.
«Non qui, non in questa zona. Da qualche altra parte.»
La portò in un grande pub sulla strada per Bray. Era affollato, rumoroso. A un'estremità del locale spiccava un maxischermo che stava trasmettendo una partita di football, nell'altra un juke-box pompava gli ultimi successi. Rachel fu costretta a sedersi vicino a Daniel per sentire cosa stesse dicendo. Riuscì a percepire il suo odore. Luce del sole, aria fresca, terriccio appena smosso. Un afrore di sudore che si levava dalla sua pelle. Sembrava in splendida forma. Più prestante di quanto lei ricordasse. Dava l'impressione di essere cresciuto. Era più alto, più robusto, più atletico, più forte.
«Come mi hai trovata?» gli chiese lei.
«Potrei farti la stessa domanda. Come mi hai trovato?»
«Ho usato la testa, Daniel. Ho usato la mia testa da detenuta.»
«E adesso, che cosa vuoi, adesso? Soldi, un lavoro, un posto in cui vivere? Avanti, fammi capire, dammi una traccia.»
Lei stava bevendo del gin. Aveva un buon sapore. Alzò gli occhi verso Daniel e sorrise.
«È adorabile, la tua Ursula. E anche i tuoi figli. Sei davvero fortunato. Te la sei cavata egregiamente da quando tuo fratello è morto e tu hai preso il posto di tuo padre, vero? Se Martin fosse stato ancora vivo, avrebbe assunto lui il controllo dell'agenzia. E a quel punto tu cosa saresti diventato? Il suo fattorino, il suo galoppino, il suo capro espiatorio. Ma quando Martin è morto, tutto questo è cambiato. Sai una cosa, Dan? Credo che tu sia in debito nei miei confronti.»
Continuarono a bere. La luce all'esterno svanì. Le luci all'interno brillarono. Una band aveva sostituito il juke-box, suonando vecchi successi, canzoni che entrambi ricordavano. Alcune coppie stavano ballando, sbandando e urtandosi a vicenda sull'angusto pavimento di legno.
«Vieni.» Daniel le tese la mano.
Lei gli posò la testa sulla spalla e chiuse gli occhi. Ricordava il tatuaggio. La rosa, la linea di rosso appena sotto la pelle. La mano di lui premeva sulle sue reni. Poi Rachel ricordò cosa si provasse a restare sdraiata accanto al corpo di un uomo. Come fosse diverso da tutti quegli anni in prigione.
Quando arrivò l'orario di chiusura, lui l'accompagnò a casa. Non parlarono. Lei osservò il viso di Daniel nella luce proveniente dalla strada. Quando lui fermò il veicolo davanti alla casa, si voltò verso Rachel.
«Mi desideri, vero? Vuoi che entri?»
Più tardi, dopo che lui se ne fu andato, lei dormì. Stavolta così profondamente che quando si svegliò, qualche ora più tardi, ricordava a malapena cosa fosse successo. C'erano tracce di Daniel dappertutto. Capelli scuri rimasti sul cuscino e nelle pieghe delle lenzuola. Una macchia umida che sentiva sotto le cosce quando si voltava. E quando si piazzò davanti allo specchio e osservò il proprio corpo, riuscì a distinguere Daniel nei vari segni. Il rosso scuro del sangue che lui aveva risucchiato in superficie alla base della gola e sulla pelle bianca intorno ai capezzoli. Lividi all'interno delle cosce, sui polsi e nella sezione superiore delle braccia. Quando s'immerse nella vasca da bagno sentì pizzicare i lunghi graffi sulla schiena, e il bruciore dentro di sé, là dove l'acqua la lambiva.
«Non lasciarmi segni», le aveva gridato Daniel, tenendole inchiodate e unite le mani dietro la testa. Rachel aveva chiuso gli occhi mentre si apriva a lui. Due volte. Assopendosi a tratti dopo la prima, poi allungando nuovamente le braccia verso di lui e trovandolo pronto ancora una volta.
Lui non aveva detto niente mentre si vestiva e si preparava ad andarsene.
«Ti dirò cosa voglio», aveva annunciato Rachel, sollevando la testa dal cuscino, parlando talmente a bassa voce da costringerlo a chinarsi verso di lei per sentire cosa stesse dicendo. «Voglio uscire in mare con la tua barca. L'ho vista nel porto. Ricordi, vero, quando siamo andati in barca a vela insieme? Esaudisci il mio desiderio, Dan. Portami fuori con la tua barca e io non infastidirò mai più né te né la tua famiglia. Te lo prometto.»
Gli aveva dato le spalle, accostandosi le ginocchia al petto e cingendole con le braccia, mentre sentiva il sonno che la trascinava sotto.
«Okay, affare fatto», aveva risposto lui.
Lei sorrise mentre si tirava la trapunta sopra la testa. Adesso lì c'erano caldo e buio. Il buio è buono, aveva detto alla bambina. Il buio ti protegge. Laura non le aveva creduto, ma lei aveva sempre avuto ragione, lo sapeva.
«Dimmi, Rachel, com'è fuori, in questo momento? È una serata tiepida e splendida come penso?»
Rachel era seduta per terra, con la schiena appoggiata al letto di Clare Bowen. Le aveva appena letto ad alta voce qualche pagina di un romanzo. Quella sera era toccato a Orgoglio e pregiudizio.
«Voglio il capitolo in cui Darcy chiede a Elizabeth di sposarlo e lei rifiuta. Adoro quel momento, e tu?»
Fuori regnavano il buio e il silenzio. All'interno la lampada sul comodino proiettava un bagliore color burro sulle due donne. Rachel si girò verso di lei, tenendo sollevato il libro. Cominciò a leggere. Clare si adagiò sui cuscini. Sospirò. Chiuse gli occhi. Quando Rachel finì, lei si dimenò, inquieta.
«Non sei comoda?» Rachel allungò una mano per toccarle la fronte, sentendola tiepida e appiccicosa. «Vuoi che ti lavi, che ti rinfreschi un po' prima che tu dorma?»
Clare aprì gli occhi e annuì.
Rachel riempì una bacinella di acqua tiepida. Scostò le lenzuola e le sfilò la camicia da notte facendogliela passare sopra la testa. Si arrotolò le maniche e intinse la spugna nell'acqua. Si fece schiumare il sapone in una mano e deterse delicatamente il sudore appiccicoso che imperlava la pelle di Clare in mezzo ai seni piccoli e piatti e sotto di essi. Clare la guardò, poi allungò una mano per toccarle il braccio. Lo tirò per avvicinarlo alla luce.
«Come ti sei procurata questi lividi?»
Rachel se li guardò. Erano di un viola scuro che risaltava sul pallore della pelle.
«Se te lo dico, mi prometti di non riferirlo a tuo marito?»
Clare sollevò la mano e le scostò il colletto della camicia. Le sue dita si posarono sui segni che spiccavano sul collo. L'ascoltò in silenzio.
«Sta' attenta», sussurrò. «Sta' molto attenta.»
In seguito, Rachel aspettò che Clare si addormentasse. Le aveva dato le pillole, tenendole sollevata la testa mentre le inghiottiva. Poi la consolò e la confortò, sapendo che la donna avrebbe lottato contro il sonno che stava arrivando. Che avrebbe temuto che quella fosse la notte da cui non si sarebbe svegliata. Sentì la chiave di Andrew nella porta d'ingresso e i suoi passi nell'atrio. Lo sentì appoggiarsi pesantemente al muro, sentì il rumore dell'acqua del rubinetto in cucina che scorreva nel lavandino, il tintinnio e lo schianto di qualcosa che si rompeva. Si alzò e si diresse verso la porta d'ingresso. Andrew era carponi, intento a raccogliere schegge di vetro sparse sulle piastrelle del pavimento. La guardò, il viso arrossato, gli occhi iniettati di sangue.
«Grazie», mormorò.
Lei annuì e si voltò.
Fuori, l'aria era ancora tiepida. Rachel cominciò a correre, acquistando velocità mentre si avvicinava a casa. Non c'era nessun bisogno che l'uomo la ringraziasse. Lui e la moglie le stavano facendo un favore. Solo che non lo sapevano. Non ancora, almeno. Ma, ben presto, lo avrebbero scoperto. Ben presto sarebbe stato evidente per loro e per chiunque altro.
26
Che fare, riguardo al caso di Judith Hill? Tecnicamente era ancora irrisolto. Fino a quel momento, nessuno era stato accusato del suo omicidio, questo era certo. Ma, con il principale indiziato morto e sepolto, in quale direzione puntare? Jack, seduto alla sua scrivania, si guardò intorno. Quasi tutti gli investigatori che si erano occupati del caso erano stati assegnati ad altri incarichi. Persino Sweeney. E lui si era preso due settimane di ferie.
«Stai facendo una cosa davvero lodevole», gli aveva detto Alison quando lui gliene aveva parlato. «Sarà magnifico per Joan potersene andare in vacanza col suo amico, tanto per cambiare. Non puoi certo negarglielo. Inoltre, ti lamenti sempre di non passare abbastanza tempo con le tue figlie. Sarà divertente. Le avrai tutte per te per due settimane intere.»
Ruth lo aveva guardato di traverso quando lui aveva suggerito che anche Alison poteva fermarsi lì a dormire. Solo saltuariamente.
«Dove potrebbe dormire, papà?» Il suo tono era sdegnato. «Rosa dorme con te, io sul divano letto. Non c'è posto per lei!» Gli aveva lanciato un'occhiataccia e lui aveva sentito sgretolarsi la propria determinazione.
Ma Alison si stava dimostrando comprensiva. «Ce la caveremo», aveva dichiarato con la sua tipica aria pacata e pratica, baciandolo, attirandolo a sé sul letto e stringendolo forte.
Era stato davvero divertente restare sempre con le bambine. Cucinare per loro, ricominciare a conoscerle partendo da zero. Lasciarsi conquistare dalla caparbia intelligenza di Ruth e dalla pensosa allegria di Rosa. Tanto che Judith Hill e suo padre, suo fratello e sua madre erano diventati poco più che personaggi di cui avrebbe potuto leggere in un libro o che avrebbe potuto vedere in una serie televisiva. Quella era la vita reale. Svegliarsi ogni mattina insieme colle figlie, preparare loro la colazione, sedersi sullo stretto balconcino a osservare l'andirivieni delle piccole barche nel porticciolo interno. Osservare i ragazzini che partecipavano ai corsi organizzati dalla scuola di vela in fondo al molo occidentale e sguazzavano con le mute da sub, cadevano dentro e fuori delle canoe, facevano capovolgere i loro minuscoli dinghy a vela. Così, quando Alison era andata a trovarlo, si era sentito quasi infastidito dalla sua presenza, dall'intrusione nel suo mondo domestico. Finché non si era riabituato, ancora una volta, a sentirne il corpo tiepido e morbido premuto contro il suo quando la raggiungeva furtivamente alle spalle o le indicava di entrare in camera per un paio di minuti.
E quando tutto finì e la vita ritornò normale, ripensò a com'era stato bello quel periodo. Quelle due settimane in piena estate, quell'anno speciale.
Mentre si dedicava alla sua breve corsa quotidiana, Rachel aveva visto Jack Donnelly e le due bambine seduti sul loro balcone, illuminato dal sole mattutino. Si somigliavano parecchio, tutti e tre. Erano bruni, con folti capelli brillanti, lucidi. Li aveva visti passeggiare insieme sul molo, in tutta tranquillità, fermandosi a osservare i voltapietre, le cutrettole e i gabbiani. Cercando d'individuare le foche che nuotavano tra le barche. Gridando di gioia mentre le guardavano emergere e girarsi sulla schiena, allungando pigramente una pinna prima di tuffarsi in profondità e scomparire di nuovo. Lo aveva visto anche di sera, riconoscendo la donna bionda che lo accompagnava. L'assistente sociale, Alison White. Aveva cercato di non pensare all'ultima volta in cui si erano incontrate. Allo strazio di trovarsi con Amy e di guardarla mentre se ne andava.
Daniel le raccontò, vantandosene, com'era riuscito a trovare anche Amy. Le rivelò di essere andato nel caffè in cui lei lavorava. Di aver attaccato bottone con lei, averla presa bonariamente in giro e averla fatta ridere. È carina, commentò.
«Le hai detto chi sei?» gli chiese Rachel.
No, rispose lui. Non voleva sconvolgerla. Voleva semplicemente scoprire com'era.
«E com'è?»
«Somiglia a me. E qualche volta a te. E altre volte a nessuno dei due.»
Si erano visti parecchie volte, dopo quella sera. Lui le aveva telefonato, era andato a prenderla all'uscita dalla lavanderia. L'aveva portata in giro per la città, sulla sua monovolume. Erano andati in vari posti. Un appartamento in un edificio sorvegliato dalla ditta di Daniel. Il suo ufficio quando ormai era deserto. Lui le aveva mostrato l'ambiente. Le aveva spiegato come, dopo la morte di Martin, il vecchio Beckett si fosse messo in disparte e lui avesse assunto il controllo di ogni cosa.
«Niente male, eh? Soprattutto per la pecora nera della famiglia. Ricordi, Rachel, come riuscivi a farmi sentire più ottimista, più sicuro di quelle che definivi le mie 'capacità intellettuali'? In quello eri davvero brava. Dopo la scomparsa di Martin, be', il vecchio non poteva fidarsi di nessun altro tanto quanto si fidava di me. Dopotutto, Rachel, faccio parte della famiglia, giusto?»
Così come ne faccio parte io, pensò lei. Sono parte di tutto ciò. Segnata in modo indelebile.
«Ursula sa che mi hai rivisto? Non hai paura che lo scopra?»
«Paura? No. Ursula ha tutta l'arroganza tipica della sua classe e del suo background. Non riesce neanche a immaginare che io possa tradirla. Nessuno l'ha mai tradita, prima. Nella sua vita è sempre filato tutto liscio, sin dal giorno in cui è nata, all'interno di una famiglia ricca che ha pianificato come avrebbe vissuto. Non conosce la delusione, non conosce la paura. In realtà» - le sorrise -, «l'unica volta in cui le ho letto in faccia la paura è stata quella sera al party. Era atterrita.»
«Allora cosa pensa che sia stato di me?»
«Pensa che io sia andato alla polizia per lamentarmi. Pensa che ti abbiano intimato di tenerti lontana. Pensa che tu sia innocua. Una donna distrutta, amareggiata, senza futuro.»
«E tu che cosa pensi?»
«Penso che mi piacerebbe sapere cosa vuoi da me. Penso che tu voglia il mio aiuto, ma non so come dartelo.»
«Tanto per cominciare, baciami, Dan. Sarà sufficiente. È passato tanto tempo dall'ultima volta in cui sono stata baciata. Poi spiegami perché hai ucciso mio marito.»
Lui le strinse il viso tra le mani, le sue dita che scendevano fino al collo. Le spinse indietro la testa. Rachel sentì i suoi pollici premerle la trachea, il fiato che cominciava a bloccarsi nella gola. Poi le dita di Daniel si rilassarono e lui la strinse a sé.
«Sai benissimo perché l'ho ucciso. Stava per rovinarmi la vita.»
«E invece sei stato tu a rovinare la mia.»
«No, non è vero. Te la sei rovinata da sola. Gli hai mentito. Lo hai ingannato. E ne hai pagato il fio. Ma adesso puoi ricominciare tutto da capo. Sei abbastanza giovane, e ancora bella. Sei brillante e intelligente. Ti aiuterò, Rachel. Lo sai.»
Daniel era nervoso, lei lo sapeva. Non si sentiva sicuro. Voleva tenersela vicina. Le chiese di passare una notte o due a casa sua. Ursula era via per un paio di settimane. Aveva portato i bambini negli Stati Uniti, in vacanza.
«E la mia gita in barca, Daniel? Me l'hai promesso, ricordi?»
Stabilirono di incontrarsi al porto. Domenica pomeriggio. Alle tre.
«Porterò del cibo e qualcosa da bere. Che te ne pare?»
«Mi sembra una splendida idea», ribatté lui.
«E dove andremo, in quale direzione, nord o sud?»
«Vedremo. Seguiremo il vento.»
Lei lo raggiunse all'imbarcadero. Aveva portato tutto il necessario per la gita. Un cambio di vestiti nel caso si bagnasse, una felpa pesante nel caso facesse freddo, cibo per il viaggio. Lui aveva tutto il resto. Indumenti impermeabili, gambali e giubbetti di salvataggio, riposti in una sacca di tela sul retro della monovolume. Quando lei l'aprì, sentì un tanfo di stantio.
«Tengo sempre qui questa roba, nel caso che si presenti una possibilità di andare in barca a vela. È comodo», spiegò Daniel.
C'erano anche dei remi per il dinghy, appoggiati al muraglione.